venerdì 23 gennaio 2009

Il malumore degli edicolanti quando comperi il giornale da un’altra parte


La vita di C. non era stata certo ricca di avvenimenti paranormali, fatta eccezione per quella volta che, da bambina, aveva visto un’edicola di giornali volare fuori dalla finestra. Era seduta sul divano in attesa che la madre in cucina finisse di fare qualcosa, probabilmente preparare una torta, e con le dita faceva avanti e indietro lungo una delle linee di velluto marroni chiare e scure che lo componevano il divano, avvolta in quella specie particolare di assenza che, da bambini, funziona da spartiacque tra un’idea di gioco che oramai ha stufato e una che sta ancora per arrivare. C. stava così a guardare nel vuoto, quando fuori dal vetro, al primo piano, era improvvisamente comparso il chiosco di giornali, leggermente ondeggiante.
“Mammaaaa!” aveva urlato C. “Vieni a vedere, c’è un’edicola che volaaa!”
Ma dalla cucina nessuna risposta, solo il rumore di un frullatore a pieni giri.
C. si era allora ancorata se possibile di più al divano, muta con la bocca aperta ad osservare il chiosco volante, che ora oscillava impercettibilmente, ma sempre a troppi metri d’altezza rispetto al solito. Cosa diavolo stava succedendo?
Finito di frullare, anche mamma era giunta ad osservare lo strano fenomeno. Non c’era d’avere paura. L’edicolante, per ragioni commerciali, aveva deciso di spostare il proprio chiosco cinquanta metri più in là, giusto davanti all’entrata dell’edificio dell’A.S.L., abbandonando, non senza un briciolo di dispiacere, la precedente posizione più defilata, vicino ad una pizzeria, sotto un albero maestoso e bello, ma in una zona di poco passaggio.

Gli anni per C. erano trascorsi senza altri sorprendenti spostamenti aerei, ma nascosta nella mente di C., era probabilmente rimasta un’emozione particolare nei confronti dei chioschi dei giornali. Li guardava sempre con una speciale attenzione (abitando in una grande città ne poteva scorgere diversi) non lasciandosi sfuggire modifiche o ristrutturazioni più o meno riuscite, e pure inevitabili chiusure o cambiamenti di gestione. Per un certo periodo dell’adolescenza addirittura, C. aveva manifestato una certa predilezione per gli edicolanti intesi come amanti, ma epurati quelli più anzianotti (la maggioranza) non ne erano rimasti poi tanti di papabili, e questa inedita perversione era scomparsa dal cervello di C. in pochi mesi, in definitiva per mancanza di pretendenti, e raggiunta la maggiore età, C. aveva capito che non avrebbe mai voluto fare la fine di quelle mogli infreddolite di giornalai che, magari con i guanti tagliati all’altezza delle nocche, davano una mano ai mariti almeno nelle pause pranzo.

Di quell’edicola in volo solo una cosa le era rimasta in fondo: la quasi morbosa, quotidiana folle necessità di comperare giornali, forse come surrogato del non aver trovato un giornalaio affascinante come Brad Pitt. E la strana sensazione, cambiando quasi ogni volta chiosco per l’acquisto, di tradire la fiducia di ogni edicolante, e di provocare, proprio lei che tanto li amava, quel fastidioso malumore che sente ogni edicolante, quando scorge passare, anche da lontano, un cliente che credeva abituale, con sottobraccio il giornale comperato da un’altra parte.

giovedì 15 gennaio 2009

Le labbra

Una mattina, al bar, alla signora al mio fianco sono cadute le labbra mentre beveva il caffè. Inizialmente, la cosa mi ha dato fastidio. Indizio di grande maleducazione, di non rispetto nei confronti degli altri, pensavo, ci risiamo, mi tocca odiare l’umanità. Erano labbra turgide, ma non troppo, forse appena ritoccate da qualche chirurgo specializzato, probabilmente alla fine del secolo scorso. La signora è rimasta con la tazzina attaccata sotto il naso, per non farsi scoprire dagli altri, suppongo. Ma le sue labbra hanno cominciato così la loro vita, spazzolando inizialmente lo zucchero ed i resti di brioche sul bancone. Avevano proprio fame, ho pensato, che graziose e innocue labbra golose, in fin dei conti.
Poi però le labbra hanno cominciato a fare fuori qualche tazzina, più di un cucchiaino, un pezzo di banco. Mi sono preoccupato. Ancora qualche secondo e le due donne vestite da vigile urbano che passeggiano al mattino presto in Galleria Vittorio Emanuele sono svanite, con i loro cappuccini ancora tiepidi. Quindi è stata la volta della signora delle labbra proprietaria, una specie di vendetta, presumo, di chi avrebbe voluto rimanere comunque bello, come era stato fatto. Morso dopo morso sono stati fagocitati i tavolini, il lungo e stretto specchio alle spalle dei baristi, le bottiglie, i lavandini, le lavastoviglie, i panini nelle vetrinette, e le vetrinette. Tutto è finito, i camerieri mangiati, il sudicio proprietario del bar, furbo inventore dei due menù con prezzi diversificati per italiani e turisti stranieri, pappato in un lampo senza poter fare beh, o almeno creare sul momento una nuova lista con i prezzi maggiorati per le clienti labbra. Queste di labbra invece, davanti a me, avevano la voracità di un mostro, ma la dolce, timida sensualità di chi, innocente, non aveva fatto niente. Nel baciarle, mi sono sentito scomparire, ma è stato un gran bel bacio.

domenica 11 gennaio 2009

Istruzioni per salire con l'ascensore (omaggio a J. C.)


Nessuno può non aver notato, almeno una volta, la presenza all’interno di molti edifici di un impianto, costituito da una cabina sostenuta da cavi, che scorre in senso verticale, utilizzato solitamente per trasportare persone e cose da un piano all’altro, posti quasi certamente ad altezze differenti.
Trovandoci di fronte a questo apparecchio, avremo la possibilità di accedervi con relativa facilità, ma non prima di averlo “chiamato”, ovvero di aver premuto un pulsante posto alla destra o alla sinistra dell’entrata. Ma attenzione, il pulsante può presentarsi a noi con due colorazioni: bianco oppure rosso. Se il bottone è candido, possiamo allora pigiarlo con decisione, e immediatamente potremo udire un rumore indicante il movimento della cabina, che con ogni probabilità ha cominciato a muoversi nella nostra direzione. Se il pulsante invece è sanguigno, meglio schiacciarlo comunque, ma senza troppe speranze, solo alcuni modelli di ascensore permettono di prenotare la chiamata, per gli altri dobbiamo aspettare che il bottone ritorni bianco, quindi premere il prima possibile, o almeno prima di altri umani eventualmente sostanti su altri pianerottoli. Quando la cabina arriva, per introdurci dentro di essa è sufficiente ruotare la maniglia, ove prevista, o spingere due antine che si apriranno in stile entrata saloon, o ancora attendere che la porta si spalanchi da sola, se automatica, scomparendo temporaneamente per qualche secondo, lasciandoci magari la prima volta stupiti.
Una volta dentro, troveremo altri tasti, indicanti numeri, sovente una campanella, qualche lettera (T, ST e PT, ad esempio). Pigiandoli, finiremo per essere trasportati dove indica il numero o la lettera. Se non si è soli e l’ascensore è piccolo, è buona norma far posizionare chi esce per ultimo verso il fondo della cabina, per non creare situazioni confuse e spiacevoli contatti nell’abitacolo.
In ascensore, è buona norma inoltre non rivolgere la parola a nessuno (se si è soli) e comunque non affrontare argomenti delicati (anche se si crede di essere in compagnia di quei condomini che ispirano maggiore fiducia). E’ sconsigliabile quindi lanciarsi in affermazioni forti, prendere posizioni nette, fare dichiarazioni del tipo:
“Mussolini? Oltre ad essere un uomo affascinante, ritengo che non abbia mai sbagliato nulla, nemmeno riguardo alle leggi razziali”.
Oppure: “Scusi, ma è una mia impressione o la moglie di quello del secondo piano è proprio una gran gnocca? Farei sesso in continuazione con lei, specie quando il marito è in ufficio”.
Meglio discutere del tempo atmosferico o di quello cronologico, delle stagioni che tardano ad arrivare o eccedono nella loro durata, di calcio o sport in genere (ma senza tradirsi rivelando passioni o simpatie per squadre o singoli atleti).
Giunti a destinazione, non servirà schiacciare nessun bottone, e una volta varcata la porta dell’ascensore (senza dimenticarsi di chiuderla alle proprie spalle, per non impedire ad altri di poter utilizzare l’impianto) ci si troverà, non senza un briciolo di sorpresa, ad un livello di altezza diverso da quello in cui si era partiti.

mercoledì 7 gennaio 2009

L’unica volta che ho visto Maradona




L’unica volta che ho visto Maradona, era appena tornato dal Mondiale del 1986. Aveva vinto la Coppa del Mondo in Messico, trascinando al successo con la sua classe e la sua grinta anche i restanti dieci compagni di squadra, e realizzando nel corso della manifestazione quello che viene considerato il più bel gol della storia del calcio.
Rannicchiato sui gradoni delle tribune dello stadio “Mario Rigamonti”, osservavo Diego muoversi con la barba incolta, leggermente sovrappeso, la prima giornata del campionato 1986/87. Andava in scena Brescia-Napoli, e la squadra di casa, neopromossa, tendeva ad addormentare la partita, con il chiaro intento, vigliacco ma comprensibile, di far girare se possibile con maggiore velocità le lancette del cronometro dell’arbitro Agnolin. Io guardavo Maradona, pensando che probabilmente avevo davanti agli occhi il giocatore più forte del mondo, anche se il mio cuore di bambino batteva per Michel Platini, e questo solamente perché il cuore di mia sorella batteva a sua volta per Antonio Cabrini, una doppia faccenda di cuori che mio padre interista, aveva digerito con difficoltà. L’ingenua cecità del mio tifo per il centrocampista francese e per la squadra della città dove mi era capitato di nascere comunque, superava anche la noia mortale di quella partita orrendamente priva di tiri nello specchio della porta, e spiando Maradona attraverso le due sbarre orizzontali azzurro-blu dietro le quali ero praticamente inginocchiato, vicino ad altri bambini non paganti come me, stipati contro il limite più avanzato della tribuna, mi sorprendevo a dubitare di Maradona, il quale cicciotto trotterellava, più sudato di quanto mi aspettassi, senza fornire particolari indizi della sua presenza in campo e della sua oramai nota genialità.
Il gol più bello della storia del calcio. Le Tv e i giornali l’avevano ripetuto per giorni dopo la partita Argentina-Inghilterra, fino quasi a convincere pure me, me che a undici anni tra realtà, filmati e libri con disegnate le vignette delle reti più belle della storia del calcio, mi pareva di averne visti abbastanza di gol. Anche quello di Platini però quella volta, provavo a convincermi…Ma poi ripescavo nella memoria l’azione di Diego nel secondo gol all’Inghilterra ed ero costretto a tradire l’amato francese numero dieci della Juventus. Il gol di Maradona era il più bello, d’accordo, ma quando sarei stato grande, ci avrei pensato io a segnarne uno migliore. Divertiti adesso piccoletto, sognavo, mentre le Rondinelle arretravano minuto dopo minuto il loro baricentro, mostrando in alcuni difensori perfino gesti aerobici decisamente scoordinati, di chiaro panico, e grida ai compagni modulate con voci sempre più tremanti. Sfogati in questi anni durante i quali puoi vantarti di aver realizzato il gol più bello della tua epoca piccoletto, che poi toccherà a me.

Il Brescia indietreggiava, e dalle tribune sempre più silenziose traspariva il medesimo timore che di certo albergava anche nel cervello dei calciatori con la V bianca sul petto, e nella testa brizzolata del già poco amato allenatore Bruno Giorgi. Poi il numero 4 del Napoli, Salvatore Bagni, dai trenta metri aveva alzato il pallone in direzione del limite dell’area di rigore dove Maradona l’aveva stoppato, un po’ con il braccio e un po’ con la pancia (ecco a cosa gli serviva), e girandosi verso la porta aveva prima eluso l’intervento di un difensore, quindi fintato impercettibilmente di entrare verso il dischetto del rigore (quel tanto che basta per sbriciolare le intenzioni d’intervento di un secondo difensore) per poi uscire invece verso l’esterno dove, ovviamente di sinistro, aveva messo la palla rasoterra in diagonale nell’angolo più lontano, sotto lo sguardo stupito di Aliboni, portiere bresciano dell’epoca, per l’occasione dotato di cappellino.
Dagli spalti il pubblico aveva cominciato a gridare: “Mano! Mano! Era Mano!”, ma anche: “Bastardi! Terroni di merda! Bastardi!”. Qualcuno più arguto della massa scimmiesca aveva aggiunto: “Allora è un vizio!” volendo così rievocare agli altri presenti il primo gol agli inglesi, che Maradona aveva siglato anticipando Peter Shilton, il portiere della nazionale britannica, con un furbo colpo di mano che aveva permesso al capitano dell’Argentina di scavalcare con un minimo ma sufficiente pallonetto l’esterrefatto estremo difensore del Southampton.

A pochi minuti dalla fine, superato il subbuglio post-gol degli abitanti dello stadio, inferociti (la maggioranza), esultanti (la minoranza, sparsa e ben nascosta ovunque, ma decisamente numerosa e compatta nella gremita curva degli ospiti), le mie ginocchia cominciavano a sgretolarsi contro il cemento dei gradoni, più di quando la domenica a messa, rendevo conto a Gesù dei miei problemi e delle mie inefficienze settimanali. Una delle mie due squadre preferite stava perdendo, e non avrebbe mai pareggiato, questo era evidente, eppure unito allo sconforto della sconfitta, quasi maggiore era in me l’emozione di aver visto Maradona che aveva fatto gol nella mia città, respirando circa la stessa aria che respiravo io ogni giorno, nel campetto di sabbia e sassi dell’oratorio a pochi chilometri dallo stadio “Mario Rigamonti”, sognando però di diventare Platini. E poi non ero sicuro che l’avesse presa con il braccio. A me pareva che Diego avesse stoppato la palla con la pancia, e con la pancia allora si poteva.


(Ma poiché gli scrittori e i bambini sovente sono dei bugiardi, o vedono solo quello che vogliono vedere, se qualcuno volesse sapere come andò in realtà quella partita del 14 settembre 1986, clicchi pure qui sotto).