sabato 27 febbraio 2010

Con Lucio Bordenave nel cappotto

Con Lucio Bordenave nel cappotto la situazione lentamente migliorò. Erano stati giorni faticosi, con pomeriggi incapaci di trattenere quelle idee che al mattino presto di facevano vive, con confortante costanza, prima di essere inghiottite dal turno lavorativo trascorso sempre in piedi. Sei ore consecutive in piedi probabilmente non erano il peggio che potesse capitare, ma sedersi ogni tanto tutto sommato non gli sarebbe dispiaciuto, e in fondo quel fastidio continuo alla caviglia sinistra che aveva ormai da un mese, chi poteva dimostrare dipendesse dallo stare per sei ore in piedi e quasi sempre nello stesso punto? E poi perché solo una caviglia e non tutte e due?
Quando le idee del mattino il pomeriggio non se le ricordava più, o le rammentava grazie alla furba intuizione di appuntarle (ma in ogni caso non riusciva a svilupparle) si dedicava alle faccende di casa, avvertendole forse stupidamente come un peso determinante, almeno nella capacità di fargli mutare radicalmente in nero l’umore. Piatti, lavatrici, spesa. Ma vaffanculo, pensava, pretendo come minimo che alla fine della vita questo tempo sprecato mi venga restituito.
Poi usciva prima che il sole scendesse (le giornate grazie a Dio iniziavano ad allungarsi) infilava Lucio Bordenave nella tasca del cappotto per avere un po’ di compagnia durante la passeggiata, e la situazione lentamente migliorava.

martedì 23 febbraio 2010

Le scarpe di Claudio Sala

(Savio per Quasi Rete Gazzetta della Sport)
Quando non avevo ancora Sky i miei sabato pomeriggio erano decisamente diversi. Invece di guardare la Premier League, ascoltavo alla radio le partite di serie B nella speranza che la squadra della mia città tornasse al più presto in A. Poi aspettavo le ore diciotto e qualcosa quando, su Rai Tre, aveva inizio 90esimo minuto Serie B, ormai unico presunto erede del 90esimo di una volta, quello condotto in studio da Paolo Valenti.
Il presentatore era un esperto, ma di boxe, e sostava chiaramente impacciato al centro del ring, con una cartelletta in mano, sulla quale aveva probabilmente appuntato la scaletta delle partite e qualche regola fondamentale del giuoco del calcio. Alla sua destra, sulle due sedie disponibili, c’erano solitamente Eugenio Fascetti e Claudio Sala, distinguibili il primo dalla scialba aggressività dei maglioni indossati (i migliori certi cardigan slabbrati, dai rischiosi giochi geometrico-cromatici, talvolta con bottoni penzolanti) e il secondo dalle scarpe, che purtroppo erano sempre le stesse. Alla sinistra del conduttore giaceva inoltre semiaddormentato l’ex arbitro Longhi, pronto a destarsi periodicamente per illustrare al pubblico qualche episodio della moviola, l’interpretazione dei quali faceva quasi sempre sorgere dubbi sulla precedente carriera in giacchetta nera e fischietto d’acciaio.
Tra servizi che non partivano o iniziavano senza audio, qualche sconcertante domanda dell’esperto di boxe agli ospiti fissi, ed esagerate sovraimpressioni grafiche sul teleschermo che annunciavano eventuali gol del primo anticipo di serie A, mi ero lentamente affezionato al 90esimo minuto Serie B.
Una sola cosa mi provocava quasi un dolore al petto: constatare come ogni sabato Claudio Sala indossasse sempre le stesse scarpe, marroni chiare e scamosciate, senza dubbio un brutto paio di scarpe, indegne dei piedi che contenevano, e pure vecchie. La telecamera inquadrava Fascetti e Sala e io fissavo le scarpe di Claudio e mi ripetevo: “No c**** non è possibile, le ha messe anche oggi”.
Me ne chiedevo il perché. Quelle scarpe significavano qualcosa per lui? Di certo non le sceglieva per abbinarle ai vestiti, perché questi cambiavano, mentre le scarpe mai. Allora forse l’ex grande ala del Torino era caduto economicamente in disgrazia e non poteva comperarne di nuove? Poco credibile, per quelle partecipazioni in un programma Rai qualche euro lo prendeva di sicuro. Restavo interdetto. Cercavo sul telecomando i pulsanti colorati per interagire con quelli dentro lo schermo.
Pulsante giallo: “Vorrei chiedere a Sala una cosa. Sinceramente, considerato che non vi ho visto giocare dal vivo al massimo dello splendore, chi era più forte, lei o Franco Causio?”
(Meglio iniziare con una domanda di routine.)
Pulsante verde: “Signor Fascetti, in difesa sui calci d’angolo meglio difendere a uomo o a zona?”
(Domanda un po’ ruffiana, avrebbe certamente permesso ad Eugenio di sciorinare una delle sue più radicate convinzioni: meglio marcare a uomo, almeno sui calci piazzati.)
Pulsante blu: “Ancora per lei Fascetti, quali i punti di contatto tra i quadrati e i triangoli presenti in colori diversi sul suo maglione e gli schemi adottati dal suo Bari migliore?”
Pulsante rosso: “Egregio Claudio Sala, dalle immagini che ho visto la sua classe risulta evidente, un bene prezioso per la storia del calcio italiano. Allora perché, le ripeto perché si ostina presentarsi ogni sabato sera in studio con quelle scarpe di quel marrone troppo chiaro e addirittura sgualcite dal troppo uso?”

Mai ricevuto una risposta. Il Brescia partiva sempre tra le favorite. Chi poteva vantare in serie B una coppia là davanti come Caracciolo e Possanzini? Pulsante rosso e blu, provavo a schiacciarli insieme. Niente da fare. Le scarpe di Claudio Sala urlavano dal pavimento dello studio di 90esimo minuto. Grossa bugia questa della Tv interattiva.

domenica 21 febbraio 2010

Dialogo tra un libraio e un non so

Arrivano di mattina presto, la domenica. Prima che il megastore apra, fumano fuori dalle vetrine, nervosi. Guardano l’orologio. Stringono tra le mani i ritagli dei cantanti e degli scrittori morti durante la settimana. Articoli, coccodrilli. La morte dell’artista scatena in loro il bisogno di possesso incontrollato dei libri e dei dischi che l’ora defunto aveva creato prima, quando era ancora in vita ma loro lo ignoravano (perché non era abbastanza morto).
Vicino sfila qualche credente o abituato a credere che si dirige verso la chiesa del quartiere per la messa delle 10. Loro, ebbri della nuova religione del commercio donata ai loro cuori verso la metà degli anni novanta (negozi sempre aperti, anche la domenica, evvai!) li guardano con disprezzo. Meglio clienti, che credenti. Ricontrollano rapidamente i titoli dei libri che il romanziere morto aveva scritto durante la vita, ma i giornali non ne avevano parlato tanto, la Tv nemmeno, e allora come facevano a sapere che era bravo? Qualcuno riconosce il libraio al quale manca qualche minuto prima di cominciare a lavorare, ma perché non tentare?
“Scusa, lo so che non stai lavorando, ma per caso avete questo libro di questo qua che è morto mercoledì, o giovedì non ricordo bene?”

Poi le serrande si alzano, i cancelli trasparenti si aprono, e l’arena si riempie. Fino a poco tempo fa i cd di quel grande cantante glieli dovevi regalare (e non li avrebbero voluti). Ora devono possederli. Poi magari non li ascolteranno mai, ma pazienza.
E’ morto J. D. Salinger.

“Voglio tutto quello che avete di questo qua. Sul giornale c’è scritto che forse esistono manoscritti inediti. Li avete? Ma com’è possibile che non abbiate nulla? No Holden ce l’ho già cazzo. Dovete vergognarvi, non avete niente di Salinger…”.

“Avevamo tutto ciò che è stampato in Italia, ma proprio la morte di J.D. ha prodotto l’isterismo di massa è i libri sono andati esauriti.”

“Ma qui c’è scritto che Stephen King si aspetta molto dalla cassaforte di famiglia dentro cui sarebbero conservanti manoscritti inediti, forse addirittura quindici o sedici, dedicati alla famiglia Glass. Ovviamente voi non avrete nulla…ma almeno, è possibile ordinarli?”

giovedì 18 febbraio 2010

75 minuti di Sanremo come non ve li hanno mai raccontati

Guardavo Antonio Di Pietro con il braccio al collo, seduto sulle poltrone di Ballarò, consolare Bertolaso, con il suo italiano stentato ma passionale. Mi sembrava di scorgere lealtà in quella mano (l’unica libera) che il leader dell’Italia dei Valori posava quasi con dolcezza su quella del capo della Protezione Civile. Se non erano innamorati, per una volta forse un talk show politico non sarebbe finito a parlarsi sopra e a insultarsi. Ma nonostante il canone, improvvisa giunse la pubblicità.
Non potendo costringere M. a guardare Milan-Manchester Utd
“Non vorrai vedere anche questa??”
“Io?? Ma figuriamoci! A parte il fatto che si potrebbe discutere sull’anche questa, è Milan-Manchester, non proprio una partitella, ma no, non voglio vederla…” (mentre una lacrima bagna la mia guancia).
Allora giriamo sull’Uno, è c’è Sanremo.
Pochi secondi e Cutugno m’inghiotte come un buco nero. Brizzolato, orecchino, riesco ad indovinare in contemporanea a Toto i versi della sua canzone. Arriva il ritornello, e se prima c’era Tu, poi non potrà che esserci Blu. Conosco troppo bene le tue mosse, Italiano vero che volevi andare a vivere in campagna. Una volta non gridavi così tanto.
Antonella Clerici è vestita da Negronetto (nel senso del salame). M. mi svela che è dimagrita dieci chili, ma all’effetto salume Antonella non sfugge. Lo spago avvolge il suo corpo, a onor del vero privo di muffa, ma non so quanto potrà resistere. Il suo abito di un rosso natalizio che non c’entra niente, sembra pronto per esplodere. Per di più ad ogni entrata sul palcoscenico la conduttrice zoppica, tanto che mi permetto di chiedere a M. se la Clerici sia per caso storpia. No, mi dice M., questioni di tacchi e vestito lungo fino ai piedi.
Intanto, ha cominciato a cantare Marco. Lavorando in un negozio di dischi, ricordo quando restavo sorpreso alle richieste dei clienti. I cantanti italiani parevano avere perso il cognome. Mi domandavano di Marco, Denis, Noemi. Nessuno che avesse cognome. Restavo perplesso, meditando sull’antropologica mutazione nominativa delle ugole peninsulari.
Questo Marco non l’avevo mai visto (guado poca Tv, lo ammetto) ed ora mi si presenta sul palcoscenico dell’Ariston vestito da fantino. Sorprendente. Camicia bianca e nera, cioè metà bianca e metà nera. Il che potrebbe anche piacermi, se si trattasse di un messaggio massonico segreto per convincere tutti gli juventini d’Italia a non mollare in questi anni poco felici. Ma invece Marco deve semplicemente essere della contrada della Lupa.
Sotto la camicia dei pantaloni di pelle, a vita bassa, che lo ostacolano un po’ nei movimenti, nonostante il taglio di capelli aerodinamico che ha scelto (rasato sui lati, a spazzolone in centro). Marco canta un po’ come un castrato, già l’avevo notato in negozio, dove purtroppo siamo costretti ad ascoltare quasi ogni giorno il peggio della produzione sonora mondiale, per motivi che francamente ignoro. Marco si agita e urla mica male, tanto che nel primo piano all’acuto finale lo vedo veramente soffrire, come se qualcuno (facciamo ad esempio il terzino laziale Kolarov) gli avesse sferrato da pochi metri una pallonata nei genitali. Ma sopravvive.
Poi il Trio delle meraviglie, Pupo Principe Tenore, e qui si tocca la vetta. Pupo inizia al pianoforte dicendo cose tipo: “Ti hanno fatto andare via…” (concluderà dicendo: “Non ti volevano far rientrare…”). Quindi a turno Italia amore mio, il tenore fa la solita parte del lirico chiamato per nobilitare (alle orecchie degli stolti) e distruggere un brano pop, infine Emanuele Filiberto conclude avvicinandosi verso la platea con fare accorato. Applausi e fischi, sventolio di qualche bandiera tricolore. L’Italia è nuovamente Campione de Mondo.
Ogni tanto Antonio Cassano chiacchiera con la Clerici, scorrono sul teleschermo azioni e gol del genio calcistico di Bari vecchia, e dico a M. che purtroppo Cassano passerà alla storia come un esempio di enorme talento sprecato, per mancanza d’umiltà e voglia d’allenarsi, probabilmente. Lei mi chiede perché, io sottolineo che se avessimo guardato Milan-Manchester, avremmo visto all’opera Wayne Rooney, straordinario attaccante dei Red Devils, che a differenza di Antonio Cassano non si sente “arrivato”. Ma M. mi dice che tanto per me sono tutti forti quando davanti ad una partita mi chiede: “Ma quello è forte?”. Non ho tempo per spiegare le mie ragioni, e allora spegniamo la televisione.
Ah, dimenticavo. La Clerici avrebbe voluto Morgan al Festival, ma i vertici RAI hanno detto NO. Antonella ha potuto perlomeno leggere una strofa della canzone dell’ideologo di X-Factor. Luci basse, la presentatrice in rosso recita emozionata, pesando le parole come fossero quelle del Leopardi. Parte del pubblico dell’Ariston si alza e applaude. Tranquillo Morgan, ne uscirai. E alla fine se ti va bene ti faranno anche i funerali di Stato.

martedì 16 febbraio 2010

Il quasi compleanno di Ennio Flaiano

“Considero lo scrittore come un personaggio ridicolo. La mia vocazione era quella di non identificarmi. La mia generazione che ha vissuto il fascismo e l’arco democratico è assai curiosa. L’idea della vita con cui siamo nati noi abbiamo dovuto cambiarla in ogni momento. Il successo era una cosa ignobile. Scrittori di successo erano Guido da Verona, Pitigrilli e Luciano Zuccoli. Scrivere un romanzo era ridicolo. Era una cosa indecorosa. Non stava bene, insomma. Il successo era temuto: che uno scrittore piacesse era la prova che non valeva niente. Dire “io scrivo” mi pareva sospetto. Per questo le mie tendenze sono andate alla satira. Ma scrivere è una fatica laboriosissima. Bisogna che la inventi ogni volta. E ora il ridicolo colpisce con forme diverse da quelle di una volta quando si rideva di una persona. Oggi colpisce l’indifferenza. Ogni giorno nel mondo si danno tanti giudizi che finiscono colla loro stessa imponenza a diventare ridicoli. Ma io sono uno scrittore perché non ho saputo realizzarmi in nessun’altra maniera, e tutto quello che ho fatto certe volte lo guardo con sospetto…”.

(E. Flaiano dal primo volume delle Opere, Bompiani. Tratto dall’articolo di Alberto Arbasino per il centenario della nascita di Flaiano, su Repubblica del 15/2/2010)

lunedì 15 febbraio 2010

Minuto per minuto. Scusa amore

(Savio per Quasi Rete Gazzetta dello Sport)
M’interrompevo da solo nella speranza che la mia squadra segnasse. Ma spesso non c’era niente da fare. Interrompevo la pedalata quando giravo in bicicletta. Poco importava se sarebbe bastato attendere solo qualche secondo per tagliare il traguardo, e indossare grazie agli abbuoni la mia prima maglia rosa. Interrompevo mia madre quando stava parlando, perfino il mio cane quando stava abbaiando. Mi convincevo che queste interruzioni, che praticavo durante tutta la settimana e pure la domenica mattina, con maggiore frequenza se la partita in ballo era di cartello, sarebbero servite poi alla mia squadra per andare in gol.
Dal panettiere interrompevo i clienti davanti a me:
“Scusa, ma t’interrompo da qui dietro, per me due ciabatte e una rosetta…”
Si scatenava il putiferio. Erano chiaramente tutti anti-juventini.
In automobile lungo l’autostrada non esitavo a bloccarmi con le quattro frecce in mezzo alla corsia. Avevo un problema al motore? Direi proprio di no.
Quando davo da bere ai fiori cercavo di fermare l’acqua uscita dall’innaffiatotio di plastica verde prima che toccasse la terra del vaso. Era molto difficile.
Il mio capo mi osservava rabbioso quando di colpo smettevo di lavorare. Avevo per caso qualche problema?
Il mio migliore amico si offendeva perché gli parlavo sopra quando in effetti sarebbe toccato a lui svelarmi i suoi principali turbamenti: “Scusa Gabriele, ma dentro di me qualcuno ha fischiato un rigore”.

A Catanzaro avevano fischiato un rigore per la Juve. Cercavo di tenere i pedali della bicicletta immobili anche se c’era molto vento, almeno fino al momento del tiro. Liam Brady prendeva la rincorsa, avrebbe calciato fuori apposta perché sapeva di essere stato venduto?

Onestamente non so se questa mania dell’interruzione sia mai servita a qualcosa. Non so se sia servita a migliorare le prestazioni della mia squadra. So che ho pagato, anche in termini di primi baci alle ragazze. Stavamo seduti, o in piedi, a pochi centimetri dalle labbra dell’altro, ma era più forte di me.
Scusa Amore, ma devo interromperti da me stesso: la Juventus è passata in vantaggio.

lunedì 8 febbraio 2010

La testa lunga di Francesco Moser

(Savio per Quasi Rete Gazzetta dello Sport)

Mio padre e mio zio Francesco Moser non lo sopportavano proprio. Quando la scuola finiva certi pomeriggi andavo a trovarli nel laboratorio dove facevano i materassi, riuscendo tuttavia a capire solamente come si poteva cucire qualche cuscino. I materassi sembravano decisamente più difficili da creare. Erano fatti di colline di tessuto ripiene di lana, spago e bottoni bianchi di cotone.
Radio Rai in sottofondo raccontava le tappe del Giro e del Tour, e i due fratelli materassai con le dita lavoravano, ma con le orecchie ascoltavano. E il campione di Palù di Giovo proprio non lo digerivano.
Da tifosi di Beppe Saronni, non perdevano occasione per sottolineare come a Moser quel Giro d’Italia del 1984 gli organizzatori glielo avessero disegnato su misura, con assai poche montagne da scalare, da sempre il punto debole del campione trentino, e tante, troppe tappe di pianura.
“Gli hanno fatto il Giro in autostrada…” malignavano i fratelli Savio, mentre io mi chiedevo che significava di preciso, e se i ciclisti fossero obbligati per questo a fermarsi ogni volta al casello per pagare il biglietto.
E poi Francesco Moser mi faceva paura. Quando si vestiva per fare il record dell’ora mi sembrava un po’ E.T., con la testa lunga e all’indietro, come il casco aerodinamico che indossava per andare più veloce. Speravo non se lo togliesse mai, altrimenti avrebbe svelato al mondo il suo cranio deformato come la coda di una stella cometa. Era un mostro questo Moser. Per questo tifavo Saronni che era anche più piccolino e quindi mi pareva svantaggiato. Ma non c’è dubbio che la scelta di Saronni era pure quella più comoda, per non contraddire mio padre e mio zio.

Marco Crestani recensisce Mio padre era bellissimo per Bookavenue e Libereditor's blog

Francesco Savio è al suo primo romanzo e ha scritto una storia che si legge con piacere, grazie ad una scrittura morbida, limpida, armoniosa e capace di coinvolgere.Un ritmo lento, dolce e pacato scandisce un’armonia di parole in accordo fra loro. Un libro dai tocchi lievi e delicati, ricco di immagini. Immagini che ti si stampano nella mente, e che portano con sé domande.Il protagonista è Nicola, un bambino di nove anni che vive metabolizzando un lutto, quello di suo padre.In certi momenti si sente solo, abbandonato, avverte la sensazione fisica del distacco. Per Nicola, però, la relazione col padre è stata positiva e quindi interiorizza il genitore perduto come una presenza protettiva. Cerca quindi di non perdere la quotidianità che aveva con lui, quasi a voler continuare la relazione, come se questa continuità lo rasserenasse e dirigesse il dolore verso qualche cosa di reale. Si viene così a creare un processo di identificazione del bambino con il genitore che non c’è più.Nicola ha sviluppato una buona organizzazione della propria personalità ed è quindi in grado di sostenere ed esprimere la sua nostalgia. Per questo il suo punto di vista è descritto in modo arguto, pacato, spesso divertente, ma mai artificiosamente ingenuo.Leggendo si capisce come le più grandi conquiste sono delle piccole vittorie. A volte non ci crediamo, non pensiamo sia possibile e, quando arrivano, sono inaspettate. Ci trovano impreparati e hanno il sapore di quella semplice felicità che di solito si trova solo nello sguardo di un bambino.In questo romanzo di Francesco Savio tutto si muove lento e leggero. Con una levità fatta di frasi brevi, scelte con cura, che si susseguono con ritmo cadenzato e denotano costante e laboriosa ricerca formale.Lo scrittore bresciano sembra aver seguito i consigli di Cechov. Soprattutto l’elogio della leggerezza. «Potete piangere o gemere sopra un racconto, potete soffrire insieme ai vostri personaggi, ma ritengo che bisogna fare in modo che il lettore non se ne accorga».Il suo è un modo di raccontare a prima vista facile, per lui le parole sono una fortunata opportunità e vanno modellate con attenzione, senza inganni o maquillage di cattivo gusto.Il tono è affabulatorio, confidenziale, ricco di immagini che elettrizzano l’emotività e, allo stesso tempo, suscitano stupore.Con voce disincantata, diretta, Nicola racconta, un mondo di esperienze e sentimenti unici. Immagina il suo rapporto col padre e sogna di diventare un campione di ciclismo.Ricorda con immediatezza e sincerità i pomeriggi passati in casa a far compagnia al padre malato, quando guardava alla televisione i campionati del mondo di ciclismo e cominciava ad amare questo sport che così tanto piaceva a papà Guerrino. Si stupiva allora che il campione del mondo con quella strana maglia bianca a cinque bande colorate dava il meglio di sé solo in quella singola gara di Settembre e poi spesso, durante l’anno, vivacchiava di prestazioni discontinue.Il ciclismo, tuttavia, è uno sport che sa regalare soddisfazioni nei momenti più impensabili e il Giro d’Italia è una gara a tappe di grande interesse popolare, una competizione unica, diversa da tutte le altre. Come scrive Gian Luca Favetto “il Giro è mito, è storia e geografia, è polvere e asfalto, è neve, pioggia, vento, grandine, sole, è miss e sorrisi, è radio, televisione e giornali, è campioni e gregari, maglie rosa e maglie nere”.Guerrino e Nicola il Giro lo seguivano eccome e il bambino addirittura sognava addirittura di vincerlo con la sua bicicletta. Desiderava a più non posso anche la maglia numero 10 di Platini e di giocare un giorno nella sua Juve.Attraverso la fantasia, Nicola impara a dare un senso al mondo che lo circonda, ma non solo.Il giorno in cui suo padre muore, però, tutti questi suoi sogni svaniscono e Nicola comincerà a pensare, parlarsi e rispondersi, ritrovandosi. Sognerà di partire in treno alla ricerca di Guerrino in una sorta di viaggio fatto di parole e silenzi, domande e sorprese. Una strada che ci rivelerà come i nostri genitori, la nostra famiglia e gli amici di un tempo sono i soli testimoni di quello che siamo stati, e che ora non siamo più.

Francesco Savio, Mio padre era bellissimo, Italic – Pequod.

venerdì 5 febbraio 2010

Su Linus di Febbraio Matteo B. Bianchi recensisce "Mio padre era bellissimo"


Di Matteo B. Bianchi, Linus febbraio 2010

Negli anni 90 la piccola casa editrice Pequod ha scoperto e lanciato una serie di autori italiani notevoli, come Diego De Silva, Marco Mancassola, Giuseppe Genna e Mario Desiati, tutti subito “scippati” dai colossi editoriali. Dopo un periodo di sospensione, oggi torna sul mercato col nuovo marchio Italic e con l’intenzione di riprendere e sviluppare la clamorosa attività di scouting che le è propria.
Comincia bene con questo delicato romanzo d’esordio del poco più che trentenne Francesco Savio, dal titolo solare ed evocativo Mio padre era bellissimo. Il libro è narrato dal punto di vista di un bambino di nove anni che ha perso il padre a causa di una grave malattia e che vede il mondo che lo circonda e la tragedia che ha colpito la sua famiglia con l’ingenuità e la struggente tenerezza di un ragazzino che si sente di colpo assurto al ruolo ingombrante e fuori misura dell’unico “uomo di casa”.

giovedì 4 febbraio 2010

Mio padre era bellissimo. Recensione e intervista a Francesco Savio, di Raffaello Ferrante. Su BooksBrothers.it

Siamo a metà anni ottanta. Nicola ha nove anni. Ha una famiglia unita attorno a sé, eppure trascorre la maggior parte del tempo da solo. Fantastica Nicola, sogna, gioca con il suo mondo d'infanzia. Papà Guerrino, mamma Leonilde e la sorella Camilla sono accanto a proteggerlo, tutti insieme nella bella e dignitosa casa del popoloso quartiere Carmine, a Brescia. La felicità per Nicola è lì a portata di mano, nei cinque metri di corridoio di casa dove instancabile disegna con la sua palla di spugna le stesse parabole che vede dipingere a Le Roi Platini la domenica in tv. Oppure è in sella alla sua Bmx rossa, sfrecciando sul pavé del Carmine, sognando un giorno di tagliare il traguardo con la mitica maglia rosa indosso. Eppure qualcosa in quella casa lo costringe a fare i conti con se stesso troppo presto. La strana epatite che ha colpito suo papà e che obbliga ormai l'uomo a vivere pressoché recluso nella sua stanza da letto perennemente in penombra, non lasciano molto spazio all'immaginazione. Anzi. L'evolvere negativo della malattia incancrenisce l'aria attorno a quella stanza sempre più buia e sempre più in ombra, fino a che nel corridoio antistante nemmeno Nicola può più fingere di non sapere. I calci al pallone, le punizioni, i palleggi devono cedere il posto a parenti e conoscenti accorsi in casa per consolare lui, la mamma Leonilde e sua sorella Camilla, in un fastidioso crescendo di pacche consolatorie sulle spalle, di sguardi compassionevoli di odiosa misericordia e nauseanti frasi commemorative di Guerrino, oramai tutte rigorosamente coniugate al passato. Che ne sarà dunque adesso della sua sfavillante carriera alla Juve? Come potrà mai allenare gambe, braccia e cervello se dovrà fare i conti d'ora in poi con l'azienda di materassi di famiglia? Che ne sarà dei suoi sogni ciclistici iridati? E quel maledetto ricordo di quando Guerrino l'aveva sgridato e lui per lo spavento aveva sperato che il padre morisse, come farà ora a non tormentargli per sempre la coscienza?Francesco Savio, qui alla prova d'esordio con un romanzo firmato Italicpequod (in precedenza due partecipazioni alle antologie Dylan revisited per Manni e Frammenti di cose volgari, targata BooksBrothers), affronta un tema - il rapporto padre-figlio osservato per altro nel momento drammatico della perdita -, in teoria ad alto rischio retorica, sopratutto per un esordiente. Invece Savio costruisce un'opera carezzevole, delicata ma al contempo solida, e assolutamente priva di scivoloni stilistici melodrammatici. La narrazione affrontata con gli occhi infantili del protagonista è fluida e diretta, a volte quasi sussurrata ed è capace di raccontarci in maniera coinvolgente quell'intima, timida e pudica soggezione che solo il rapporto figlio-padre a volte sa regalare. I personaggi sono ben tratteggiati e delineati – molto bella la figura della madre, vero collante e fortezza di amorosa dignità familiare –, mai sopra le righe. Insomma una prova davvero convincente, quest'opera prima di Savio, capace, nonostante il doloroso tema della lacerazione famigliare, alla fine di lasciare al lettore in eredità una commovente e delicata serenità d'animo.
Francesco Savio, classe '74, bresciano di nascita e milanese di adozione, oltre all'indubbio merito di essere uno degli autori della booksbrothersiana antologia Frammenti di cose volgari (con lo splendido racconto Il cornicione), è sopratutto uno juventino doc! Proprio da qui vorrei partire nello scambiare quattro chiacchiere con lui.
Nel tuo romanzo “Mio padre era bellissimo” lo sport – e il calcio in particolare – hanno un peso rilevante nelle fantasie del piccolo protagonista Nicola. Qual è la forza dirompente di questo sport secondo te?
Pur essendo nato in una terra di cacciatori, ho sempre pensato che l’uomo italiano non nasca cacciatore, ma calciatore. Nel bene e spesso nel male, il calcio è una parte importante dei pensieri del maschio italico. Ricordo Pasolini restare affascinato dalla partita domenicale allo stadio, a suo avviso l’ultimo rito pagano collettivo capace di attirare migliaia di persone in un determinato luogo, per assistere alla cerimonia dei novanta minuti. Personalmente amo il calcio fin da piccolo. Mi emoziona certamente di più quando gioca la mia squadra, ma in generale sono in grado di seguire come ipnotizzato qualsiasi incontro. Certi gesti tecnici, alcune variazioni tattiche riescono a tenermi incollato allo schermo (perché allo stadio vado molto raramente). Se guardare le partite fosse un lavoro (ed è vergognoso che non lo sia!) diciamo che avrei probabilmente il posto fisso. La forza del calcio per me sta nel fatto che è uno sport popolare, che tutti possono provare a praticare indipendentemente dalla loro costituzione fisica ad esempio. Non costa nulla giocare a pallone, puoi giocare in un prato o per strada, ti basta un palla e sei a posto.
Quanto c'è della tua infanzia nella rappresentazione narrativa?
C’è molto, ma non tutto. L’idea era di romanzare la mia infanzia. Per confondere però anche il lettore più attento ho cambiato il nome del piccolo protagonista, che infatti non si chiama come me. In generale volevo parlare dell’infanzia. Mi sono chiesto: cosa rende un’infanzia interessante e un’altra no? Il modo in cui viene raccontata, mi sono risposto. Parlo spesso da solo. Per questo poi mi sono domandato: quando finisce l’infanzia? Nel caso di Nicola in un certo senso quando muore il padre. Ma per un altro bambino può essere, che so, quando i genitori si separano. Ho cercato di sprofondare nell’infanzia, ho immaginato che Nicola decidesse di investigare sulla “scomparsa” del padre. Alla fine mi è venuto in mente che, forse, una persona prima o poi sceglie di vivere nel posto dove stanno i ricordi della sua infanzia.
In genere il rapporto figlio-madre rappresenta il basamento dell'intera attività formativa di un individuo. Perché invece ti è venuta voglia di raccontare il rapporto figlio-padre?
Figlio-madre e figlia-padre sono in effetti gli schemi più consueti, nel mio caso il desiderio di raccontare il rapporto figlio-padre nasce dal lutto. L’improvvisa assenza del padre spinge il figlio a cercarlo. Dove diavolo è andato a finire? Personalmente però credo che in “Mio padre era bellissimo” sia molto presente anche la rappresentazione del legame tra la madre e il figlio. Se Nicola non crolla è per via delle donne che lo circondano e proteggono. E non è un caso che il libro sia dedicato a tre donne.
La storia è ambientata negli anni ottanta, come mai questa scelta?
Perché sono gli anni della mia infanzia, ma anche perché sono stati anni cruciali per l’Italia che in quella decade ha vissuto l’inizio di un grande cambiamento sociale. Gli anni ottanta suonano in sottofondo come un brano musicale, però non ritengo determinante la collocazione temporale dei fatti (credo che il tema trattato non sia soggetto a particolari variazioni se immerso negli anni sessanta, oppure nei novanta). Semplicemente mi piaceva tornare negli anni ottanta, senza esprimere giudizi più o meno soggettivi sul periodo, ma solo per il piacere di tornarci, come con una macchina del tempo, che nel mio caso era formata da una sedia e da una scrivania.
Che bambino sarebbe Nicola se l'ambientazione fosse stata invece ai giorni nostri?
Beh, tecnicamente sarebbe ancora molto forte. Il più bravo della sua età sul campetto dell’oratorio, e il secondo a livello assoluto, nelle giornate in cui Fabio Ferrari (di un anno più vecchio) era in grande spolvero. Difetterebbe come allora per cattiveria agonistica e grinta, ma il pallone canterebbe tra i suoi piedi. A casa avrebbe la Playstation 3 comperata da Leonilde con tanti sacrifici, e non l’Msx della Philips. Ci sarebbe rimasto molto male per Calciopoli, perché la Juventus in quel periodo era la più forte e basta. Sarebbe rimasto stupito davanti a un processo sportivo durato venti giorni e con le sentenze scritte sulla Gazzetta dello Sport giorni prima della lettura in aula. Sarebbe tornato comunque sereno nel rendersi conto del privilegio di non avere come Presidente un petroliere sventolatore di ipocriti “Scudetti dell’Onestà”. E mi fermo qua, povero bambino.
Qual è la genesi di questo libro? Come è maturato dentro te?
Ricordo di essere rimasto colpito da una frase di Ray Bradbury: “Quindi ho creato un personaggio che volesse qualcosa con tutto il cuore…”Ma cosa? Quale il sogno del mio personaggio? Cosa desiderava con tutto il cuore?Cosa si eredita da un padre che non si è conosciuto? L’eredità di avere dei sogni? Ho iniziato dalla necessità di recuperare l’infanzia, volevo scrivere una storia drammatica con ironia, una storia che facesse magari piangere, ma anche ridere (o quantomeno sorridere). Nascendo poeta, o per essere precisi pessimo poeta, era inevitabile che il mio libro fosse breve, come certe opere di Penna o Magrelli, poeti che adoro quasi di più quando scrivono in prosa. E’ stato proprio Sandro Penna a mettermi in guardia, qualche anno fa: “Almeno fa delle cose brevi, più adatte a questo tempo che, è tutto fatto di velocità”.
Anche nel racconto presente su “Frammenti di cose volgari” affronti il tema della morte. E' un caso o ti piace scandagliare l'animo umano alle prese con un evento tanto traumatico?
Per scatenare l’entusiasmo dei lettori di BooksBrothers potrei rivelare un mio pensiero ricorrente, specie quando una giornata non è andata troppo bene. Dentro di me penso: ma sì, tanto tempo cinquant’anni e siamo tutti in una cassa di legno. Allegria, direbbe Mike, con o senza Funerali di Stato. Però è così. Oppure penso a una frase dell’amico e scrittore Livio Romano il quale una volta, parafrasando Shakespeare, mi disse:“Ma sì, tanto anche questa giornata è passata come tutte le altre.” Credo che l’aver subito un’ingiustizia da piccoli paradossalmente possa spingere ad affrontare con ironia ogni avvenimento della vita. Per un bambino perdere un genitore è TUTTO. Dopo questo tutto, ogni cosa è relativa. La morte è un tema fondamentale, e non posso aggiungere altro perché risulterei banale. Cinematograficamente può essere affrontata con l’occhio di Bergman o con quello di Woody Allen, amo entrambi, ma mi sento più vicino al secondo, con le dovute proporzioni, lui infatti è un genio. Anche Bergman ovviamente. Ma ho risposto alla domanda?
Quali sono i tuoi capisaldi letterari di riferimento?
Oddio, sintetizzando, in ordine alfabetico: Berto, Bianciardi, Bioy Casares, Bukowski, Busi, Camus, Cappelli, Carver, Cheever, Cortazar, De Luca, A. Di Benedetto, Fante, Fitzgerald, Flaiano, Hornby, Huxley, Kafka, Kerouac, La Capria, Landolfi, Malamud, Manganelli, Magrelli, Mari, Mastronardi, Merton, Penna, Parise, Pessoa, Proust, P. Roth, Sabato, Salinger, Saramago, Svevo, Thoureau, Tondelli, Vila-Matas, Vonnegut, Walser, R. Yates, Platini, Boniek. Ho dimenticato certamente qualcuno, e non ho messo certi registi cinematografici che sono stati per me importanti come gli scrittori che ho citato sopra.
Hai già in cantiere il prossimo romanzo?Direi di sì. Si è sviluppato dal racconto “Il cornicione” apparso su BooksBrothers e credo di essere al 70% circa. Mi manca la parte finale, e un po’ di tempo per farmela venire in mente. Pensavo di chiedere al mio datore di lavoro due mesi estivi stipendiati da trascorrere in Alto Adige per terminarlo, ma temo non sarà d’accordo.
E per finire, premio Strega o trentesimo scudetto alla Juve?
Incredibilmente è più probabile che io vinca lo Strega che la Juve vinca il suo trentesimo scudetto. L’Inter è la squadra con i giocatori più forti, ha un bravo allenatore, anche se troppo pallone gonfiato per i miei gusti, e tendenzialmente poco corretto nei confronti degli avversari. Ma nella nostra epoca la sportività viene vista come sintomo di debolezza, e allora personaggi come Mourinho fanno il tutto esaurito a teatro. Il Milan gioca il calcio migliore dopo il Bari, è la squadra meno italiana del nostro campionato per tipologia di gioco, anche l’atteggiamento sul campo dei suoi giocatori è preferibile a quello maggiormente isterico dei nerazzurri, ma alla fine sarà l’Inter a vincere il suo quarto scudetto consecutivo. Milan secondo, Roma terza, Napoli quarto, Juve quinta, Fiorentina sesta. Quanto allo Strega, Savio se lo scorda.

lunedì 1 febbraio 2010