lunedì 19 dicembre 2011

Il posticipo_ Juventus-Novara (Mangiare agnolotti stanca)



Probabilmente non erano trascorsi molti giorni da quando era andato per una stradicciuola di campagna, tutta deserta, col tumulto in cuore, portandosi dietro una rivoltella. Per questo, quando domenica mattina ho visto a Torino il soprabito che lo conteneva, magro e pallido, stazionare immobile eppure tremante sotto la pioggia battente appena fuori la Galleria Natta, ho chiesto a Marco di accostare.
”Ciao Cesare, per prima cosa dimmi cosa ci fai qui a prendere l’acqua come un albero, e perché non fai due passi più in là in modo da ripararti sotto la Galleria, dove non piove.”
”Perché sono innamorato di Pucci, Francesco, e la sto aspettando, da sei ore.”
”Ma Cesare, ti pare il caso di star qui a morire? Per una che si chiama Pucci, poi? E l’intensità del tuo amore, non sarà mica diversa se aspetti al coperto?”
Pavese non rispondeva e batteva i denti, mentre era quasi mezzogiorno.
”Sicuro che l’appuntamento non fosse per le sei di sera?”

In ogni caso, in due anche un grande poeta riesci a caricarlo sull’automobile, così l’abbiamo spinto dentro, abbiamo acceso il riscaldamento fino ad asciugarlo, muovendoci con decisione lungo le vie di una Torino fredda fa provvista di sole.
”Stavi lì ancora un po’ e ti beccavi una bella pleurite, Cesare. Per una che si chiama Pucci. Poi in primavera voglio vederti a stare a casa quando i tuoi amici vanno sul Po a farsi lunghe nuotate per scacciare il tedio e il dolore della anima.”

Giunti all’Albergo Roma: un piatto di agnolotti del plin, un bicchiere di vino rosso delle Langhe. Cesare si pulisce gli occhiali, fuma e sfoglia affranto o felice Tuttosport.
”Ho diciotto anni. Sono incapace, pigro, malcerto, debole, mezzo matto. Mai, mai potrò farmi una posizione stabile in ciò che si chiama la riuscita della vita. Eppure, sapete che vi dico? Che sono piemontese e allora oggi vengo allo stadio con voi, perché giocano Juventus e Novara. Mi distende i nervi guardare le partite di pallone, e se Silvio Piola dovesse confermarsi sui livelli delle ultime giornate, per la Juventus saranno dolori!”

Dentro la nuova nave grigia con righe tricolori che brilla, proviamo ad attirare l’attenzione del presidente Andrea Agnelli fumante sigaretta in cappotto blu. In un momento di sorprendente entusiasmo, agito addirittura una mano e dichiaro al vuoto:
”Presidente, sono Savio! E volevo...”
Cesare mi tira giù per un braccio.
”Guarda che non ti sente. Siamo dalla parte opposta, e poi queste cose noi timidi non le facciamo.”
Ma poi è lui ad alzarsi e a declamare in direzione di Agnelli:
”Presidente, la poesia è dappertutto! Un qualunque sentimento è poesia! E questo dono divino è l’unica cosa veramente nostra, perché la scienza è, sotto un certo aspetto, una realtà di tutti e di nessuno!"

Al terzo minuto del primo tempo ci ritrovavamo tutti quarantamila in piedi, per applaudire una bella azione che terminava con la rete di Pepe su intelligente cross rasoterra del galoppante De Ceglie. Juventus 1, Novara 0. Seduti. Poi ci saremmo alzati in altre circostanze, per occasioni clamorose sfumate sul più bello: Marchisio, Giaccherini, Pepe, Quagliarella, Del Piero. Tutti bravi a fare goal, quasi. Il volenteroso Novara, seppur privo del capitano Piola, teneva botta il possibile, sovrastato dai propri limiti tecnici, e il risultato restava così in bilico fino settantacinquesimo quando Quagliarella ritornava centravanti 364 giorni dopo l’ultima volta, girando in rete di testa un calcio d’angolo di Andrea Pirlo.

Uscendo dallo stadio con la voglia di voltarsi indietro a guardarlo ancora, Cesare preferiva proseguire da solo, a piedi:
”Grazie ragazzi, mi sono divertito. E’ stato un buon pomeriggio. Ora ritorno fuori dal Caffè-Concerto La meridiana in Galleria Natta ad aspettare quella ballerina. Ma non lo farò in eterno, e non mi ammalerò. Invece studierò e lavorerò per fare della mia vita la cosa migliore e più bella di cui sarò capace”.

martedì 13 dicembre 2011

Il posticipo_Roma-Juventus (Un asturiano a Roma)


Dopo l’ennesimo aumento della benzina, alla fine la popolazione era esplosa. Adesso Presidente della Repubblica e  del Consiglio ciondolavano impercettibilmente appesi per i piedi alla pensilina di un distributore di carburante.
Erano trascorsi pochi mesi dall’avvento dell’asturiano nella città eterna, ma lo spettacolare atterraggio di Luis Enrique nel prato del galoppatoio a Villa Borghese a bordo della sua aeronave spaziale pareva solo un lontano ricordo. Così come l’emozione pallida di Federico Fellini nello scorgere il disco volante dal Pincio dove si trovava scendere leggero, prima d’incontrare verso le diciannove lo scrittore Ennio Flaiano e abbracciarlo, in lacrime.
“Vivremo in un modo nuovo e semplice Ennio. Avremo una veloce pazienza nel far girare la palla, quasi come il Barcellona. L’aeronave è un’enorme meraviglia lucente. Gialla come il sole, rossa come il cuore mio”.   

Il Presidente del Consiglio poi aveva fatto recintare il disco volante, permettendone però  la visita mediante pagamento di una tassa a favore di certe opere assistenziali cattoliche. Il Presidente della Repubblica invece aveva ricevuto l’asturiano al Quirinale, interrompendo addirittura il tour promozionale per l’uscita del suo inutile libro, con grande sgomento delle genti corrotte o rimbambite già pronte ad applaudirlo per strada o nelle università. Nessuno come gli italiani era abile a volare in soccorso al vincitore.
La vita dei partiti sembrava essersi fermata. Ignobili adulatori di ogni schieramento strisciavano ai piedi del nuovo Premier, e balbettavano il loro assenso a una manovra iniqua, fingendo di non guardare l’asturiano presente in visita alla Camera dei deputati, ben sapendo che egli, li osservava tutti.
“L’Osservatore Romano” infine, nella consueta rubrica “Nostre informazioni”, aveva segnato tra i nomi delle persone che il Santo Padre aveva accolto in udienza privata anche quello di Luis Enrique, relegandolo però nell’elenco stilato per ordine d’importanza agli ultimi posti, si dice perché l’asturiano aveva preteso chiarimenti riguardo al versamento dell’Ici nelle casse dello Stato.

Il giorno in cui un ignaro benzinaio aveva esposto senza pensarci troppo il cartello Benzina Verde 1710 euro al Litro, era stato l’inizio della fine. In un rigurgito d’orgoglio, il popolo aveva smesso di lavorare, smesso di cucinare e si era diretto verso i luoghi del potere. I deputati presenti (pochi), i ministri del nuovo Governo, il Presidente del Consiglio e della Repubblica erano stati giustiziati e trascinati fino al distributore di carburante dove i rivoltosi avevano ritenuto esserci la pensilina più adatta all’esposizione. Ma in Italia anche la folla più inferocita, non rinuncia mai alla partita. Per questo il fiume di persone aveva preso la direzione dello Stadio Olimpico, e sfondato i tornelli aveva assistito dal vivo al primo incontro di Serie A trasmesso in 3D: Roma-Juventus.

Sul terreno di gioco, invece dello spettatore televisivo sembrava Arturo Vidal quello indossante gli occhialetti tridimensionali quando, al sesto minuto dl primo tempo, ciccava clamorosamente un’innocua conclusione di De Rossi facendola terminare alle spalle di Buffon. Ne usciva fuori una bella partita. Una Roma coraggiosamente schierata con l’esordiente capitano della primavera Viviani a centrocampo, ribatteva azione dopo azione ai tentativi di rimonta juventina che si concretizzavano solo al 61’ grazie ad un colpo di testa di Chiellini. Solo un minuto dopo, Vidal rimetteva nuovamente quei maledetti occhialini senza i quali era stato uno dei migliori in campo, giusto in tempo per fare fallo a Lamela in area di rigore. Totti calciava di potenza, ma Buffon respingeva. Il risultato non sarebbe più cambiato, lasciando agli osservatori la sensazione di un emozionante pareggio che avrebbe potuto essere anche altro.

Eppure, più forte del rumore giallorosso, qualcuno alla fine aveva gridato: “A asturiano!...”.
Luis Enrique si era subito voltato e ancora una volta l’inno della Roma era stato sovrastato da un suono lungo, straziante, plebeo. L’allenatore asturiano aveva fissato a testa alta la tribuna Monte Mario, senza riuscire a identificare l’autore del vile gesto sonoro. Poi una pernacchia ancora più forte, multipla, fragorosa, l’aveva spinto a volgere di nuovo lo sguardo al solitario contestatore, urlando:
“Italiano: mascalzone!”

sabato 10 dicembre 2011

Anticipi e posticipi a Pavia


Oggi, alla Nuova Libreria Il Delfino di Pavia (Piazza Vittoria 11), io e Antonio Gurrado riveleremo chi tra noi è Gianluca Vialli, e chi Roberto Mancini. Arbitrerà Roberto Torti de La Provincia Pavese. Se la presentazione di "Anticipi, posticipi" (Italic peQuod) dovesse terminare 0-0, si andrebbe direttamente ai calci di rigore.

lunedì 5 dicembre 2011

Il posticipo_Genoa-Milan (Da Quarto a Marassi, con Bianciardi e lacrimogeni)


Quando avevo appena gli anni per saper leggere, mio padre mi mise in mano Da Quarto a Torino. “L’ha scritto Luciano Bianciardi,” mi spiegò “ma adesso io torno a fare i materassi. Tu invece fai un po’ quello che vuoi.”
Da allora, credo che non sia passata stagione senza che io ragazzo rileggessi quelle pagine, affascinato da questo scrittore di Grosseto che si guadagnava da vivere traducendo, sei ore al giorno, tutti i giorni, e che dedicava solo il fine settimana alla sua scrittura.
All’epoca della breve storia della spedizione dei Mille, Luciano viveva a Milano da sei anni. Dove?

Una volta adulto, mi sono incamminato senza incertezze verso via Monterosa. Bianciardi abitava lì, ed essendo sabato, stava scrivendo cose sue. Ma se l’avessi convinto a tirar fuori dal garage il suo vecchio Bibliobus, saremmo arrivati a Genova in orario per aspettare impazienti con gli altri, distesi per terra, alla foce del Bisagno e sulla scogliera di Quarto, il tenente colonnello Nino Bixio passarci a prendere con il Piemonte e il Lombardo, le due navi gentilmente prestate da Giovan Battista Fauché, direttore della società Rubattino. Ma il tempo passava, e il Generale Garibaldi si spazientiva, preoccupato che tutti quegli uomini in mare potessero dare troppo nell’occhio.
Poi, da sotto il poncho una vibrazione. L’eroe dei due mondi a tastarsi dappertutto: nei pantaloni di flanella grigia, nei taschini della camicia rossa, fino a trovarlo, il suo blackberry, e sullo schermo illuminato il messaggio del Bixio:
“Giuseppe, siamo in ritardo. Abbiamo avuto problemi a scaldare le macchine, ad avviare le ruote, ad imbarcare sul Lombardo i mille fucilacci del La Farina. Ingannate il tempo, almeno due ore.”
Meglio tornare indietro con le barche quindi, e con gli altri Cacciatori delle Alpi fare finta di niente, disperdersi e fischiettare, passeggiando sulla riva prima di sparpagliarsi dandosi appuntamento a dopo. E già che ci siamo, con Bianciardi schiacciare l’acceleratore del furgone che una volta usava per portare i libri nelle campagne toscane e andare a Marassi, dove Genoa e Milan si fronteggiano per la tredicesima giornata di campionato.

Allo stadio tutti piangono, ma non è una brutta partita. Ci raccontano, a me e a Luciano, che il Milan ha già avuto due grandi occasioni, entrambe con Nocerino. La prima sventata con la punta del piede dall’inesauribile Marco Rossi, abile a togliere il pallone dall’orizzonte con goal del centrocampista rossonero. La seconda una gran parata di Frey. Poi, fuori dallo stadio sono partiti dei lacrimogeni, il pianto si è trasferito anche dentro, e l’intervallo ha sorpreso le due squadre sullo zero a zero. Al cinquantacinquesimo però, l’ancora commosso Kaladze falcia spudoratamente Ibrahimovic in area di rigore. Espulso, e Zlatan dal dischetto buca la rete: Genoa 0, Milan 1. E’ finita, ma come prevede il regolamento si prosegue fino al novantesimo. Robinho riesce ad alzare un pallone sopra la traversa a meno di un metro dalla riga di porta, il grottesco centravanti Pratto finalmente si smarca e calcia verso Amelia, ma il tiro termina in fallo laterale. Al settantanovesimo Nocerino fissa il risultato sul due a zero appoggiando in porta da pochi passi l’assist di Boateng.

Durante il viaggio di ritorno verso Quarto, Bianciardi borbotta e guida come uno che non ha più niente a che fare con il resto del mondo. Mentre allenta i bottoni della sua camicia rossa, riesco a chiedergli solamente in quale ruolo preferisce giocare, e se la vita era più agra ai suoi tempi, o ai miei. Luciano mi risponde:
“Io, come al solito gioco centromediano, metodista. Oggi si dice centrocampista. Coordino, imposto, a volte concludo. Stop di ginocchio, finta di corpo al piccoletto, che ormai non ride più perché regolarmente con la palla sono io che lo dribblo, palla all’ala, che centra, testa e rete. Schema classico. Ma lo scatto non è più quello di un tempo, il fiato neanche, ogni tanto devo fermami a riprenderlo. Ora la vita è sicuramente meno agra. Non si stenta ad arrivare alla fine del mese, non si saltano più cene, ci possiamo permettere di bere un bicchiere buono. Però, se la vita oggi è meno agra, è anche molto più confusa. I valori si confondono, le persone cambiano faccia, e ci si sente male. In un modo diverso, ma forse più di prima.” 

lunedì 28 novembre 2011

Il posticipo_Lazio-Juventus (Lo straniero Pepe Meursault)




Il giorno in cui Simone Pepe Meursault si rese conto che il ruolo dell’ala destra era scomparso, andò dal suo principale per chiedere due giorni di libertà. Con una scusa simile non poteva dirgli di no, ma non aveva l’aria contenta. Simone aggiunse perfino: “Non è colpa mia”.
Dopo aver mangiato come al solito in trattoria da Celeste, aveva dovuto correre per non perdere l’autobus. L’ospizio era a due chilometri, il direttore era stato comprensivo prima di spiegare che aveva già provveduto a trasportare l’ala destra defunta nel loro piccolo obitorio, per non impressionare gli altri: “Ogni volta che un ruolo muore, gli altri sono nervosi per due o tre giorni, e questo rende difficile il servizio”.

Al funerale Meursault non aveva pianto, non aveva tradito nessuna emozione. Aveva fumato una sigaretta, il cielo era pieno di macchie rosa, si stava preparando una bella giornata. Con il sabato libero era andato al mare a fare il bagno, a baciarsi con Maria. Poi a casa si era annoiato, fino a quando non aveva deciso di girare la sedia, appoggiare i gomiti allo schienale e guardare quello che accadeva giù in strada. Passavano i tram che portavano allo stadio Olimpico grappoli di spettatori stipati sui predellini, attaccati ai parapetti. Quindi i giocatori di Lazio e Juventus con le loro borse di allenamento. Urlavano e cantavano cori per caricarsi, salutavano la gente che li incitava o fischiava a seconda del tifo di appartenenza. Sul tram biancoceleste, che l’esperto Edy Reja pilotava con sicurezza fendendo ali di folla, il capitano Rocchi continuava i festeggiamenti per i 100 goal realizzati con la maglia della Lazio, applaudito da tutti eccetto il deluso Cissè, in disparte e col broncio per l’esclusione dall’undici iniziale. Su quello bianconero, l’autista Alessandro Del Piero guidava spericolato per sfogare la rabbia della sesta panchina consecutiva, ma rispettando come gli era solito anche nei momenti difficili il codice della strada. Anzi, guardando verso l’alto i palazzi e i colori di Algeri, aveva pure frenato di colpo quando aveva scorto al secondo piano Meursalt alla finestra guardare giù, imbambolato o sognante.
“Simone! Ti sei dimenticato che stasera devi giocare?! E va bene, avrai la maglia numero 7”.

Allora per concentrasi prima della partita una passeggiata sulla spiaggia, in uno straordinario silenzio sinonimo di felicità, interrotto solo da quattro colpi di pistola. Lontano il riflesso lucente della lama di un coltello, un arabo a terra. L’assassino di fronte a lui, accecato da una sventura luminosa.
Portato in carcere, sdraiato sulla branda con le mani dietro la nuca, la consapevolezza che perfino in cella, non si è mai completamente infelici. Dal buco con le sbarre si può vedere ancora il mare, anticipato dallo stadio.

Una squadra rosa, e una azzurra, si fronteggiano per conquistare il primo posto in classifica. Ne viene fuori una sfida aperta che recita la scena principale al trentacinquesimo del primo tempo: Rocchi tira a colpo sicuro, ma Buffon riesce a respingere. L’azione bianconera riparte immediatamente, e diciassette secondi dopo Pepe Maursault batte un rigore in movimento e spiazza Marchetti dopo una rapida e letale combinazione Vucinic-Matri. Lazio 0, Juventus 1. L’ala che in estate doveva essere venduta per fare spazio a stranieri più affascinanti esulta, mandando nella buca del calcio d’angolo una pallina da golf, frutto della sua immaginazione. Poi continua per il resto dell’incontro a fare avanti e indietro sulla fascia destra come un forsennato, accompagnato dal motorino svizzero Lichtsteiner.
Nel secondo tempo la Lazio attacca con veemenza, spegnendosi però dopo un gran palo colpito da Hernanes e un’altra parata di Buffon su tiro a girare di Klose. C’è ancora spazio per un miracolo di Marchetti su Giaccherini e per un nuovo legno, questa volta su un improvviso diagonale di Matri.


In galera, è giunta l’ora dell’ultima notte prima di essere condannato a morte. Chi ha ucciso, trova sollievo nella somiglianza tra l’indifferenza propria e quella del mondo. E perché tutto sia consumato, per evitare di essere solo, non può che augurarsi che ci siano molti spettatori il giorno dell’esecuzione, pronte ad accoglierlo con grida di odio.

domenica 20 novembre 2011

Il posticipo_Fiorentina-Milan (La colazione di Stevan Vonnegut Jovetic)



Il sospetto che tutti gli uomini tranne lui fossero dei robot giunse nel cervello di Jovetic appena dopo colazione. Il tempo di digerire i cereali della General Mills Inc. e la decisione: far scivolare le dita sullo schermo del suo Iphone fino a “Delio Rossi”, chiamare il neoallenatore gigliato per comunicargli due cose:
“Mister: i muscoli profondi dell’anca mi fanno ancora male, contro il Milan sabato non ci potrò essere. Mister: in base al romanzo di Kilgore Trout che sto leggendo, ho capito che io sono l’unica creatura sulla terra dotata di libero arbitrio, e la cosa mi fa una certa impressione.”

Curioso tipo questo Kilgore Trout, delirante e spiantato scrittore di fantascienza, cinquantaquattrenne autore di centodiciassette romanzi e duemila racconti eppure sconosciuto a principale e colleghi, almeno fino a quando non aveva ricevuto, da parte dell’ammiratore Jovetic, l’invito alla partita di Firenze, anticipata per l’occasione allo stadio Franchi dal simposio “Il futuro del romanzo italiano nell’era di Alessandro Baricco e Bobby Saviano”.

E allora via in autostop verso la meta, trasportato da camionisti, con tappa per dormire in un cinema della provincia toscana, di certo più economico di una notte in albergo, al cinema come fanno i barboni, che infatti non mancavano nelle ultime file. Nel dormiveglia Kilgore, braccato all’interno del racconto dal suo creatore Kurt Vonnegut deciso a regalarsi qualcosa d’infantile per il suo cinquantesimo compleanno, proprio non poteva fare a meno di pensare:
“Non so chi siano Baricco e Saviano (mi dicono il primo un noioso mestierante della penna che nel suo ultimo romanzo purtroppo fa smettere di scrivere il protagonista invece che se stesso, il secondo un ex scrittore ora indignato di professione anche a New York, ma con biglietto pagato in Business Class). Io no so chi siano ripeto, ma so cosa significa passare una nottata in compagnia di un bel po’ di barboni in un cinema. Al simposio vogliamo parlare di questo?”

Jovetic intanto attendeva nelle vicinanze dello stadio, passeggiando su e giù con un occhio al suo orologio montenegrino, guardando gli altri tifosi come fossero robot, fiducioso che Kilgore potesse offrirgli un punto di vista nuovissimo sulla vita, o quantomeno sulla partita.
“Mi sono perso. Ho bisogno di qualcuno che mi prenda e mi conduca fuori dal bosco.”

Poi in tribuna, al fianco di un Trout indossante occhiali con lenti argentate, come specchi-falle verso altri mondi, osservando i movimenti sul campo di fiorentini e rossoneri, pensando a cosa avrebbe fatto lui, unico dotato di libero arbitrio, al posto loro, i novanta minuti erano trascorsi in un baleno. Un Milan migliore, non riusciva a vincere a causa di un goal di Seedorf annullato ingiustamente, di un rigore e mezzo non concesso, di un palo di Pato. Gli uomini di Delio Rossi, ancora scosso dalla strana telefonata mattutina del suo talento più importante, riuscivano a portare a casa un pareggio fatto di organizzazione difensiva, e un pizzico di fortuna. Fiorentina 0, Milan 0.

Nel dopo gara, al bar dello stadio, lo scrittore prima confortava il trequartista Stevan:
“Questo non è il tipo di posticipo in cui alla fine la gente ha quello che si merita. Ma tu, caro Jo-Jo, non farci caso. Alcuni sembrano averti in simpatia, altri in odio, e tu devi chiedertene il perché. Non sono altro che macchine simpatizzatrici e macchine odiatrici. Sei abbattuto, demoralizzato. Perché non dovresti esserlo? Naturalmente è stancante dover ragionare sempre in un universo che non è stato fatto per essere ragionevole.”
Poi, prima di salutarlo versando una lacrima lunga, lo implorava:
“Tu che assomigli al mio creatore Vonnegut da ragazzo, con lo stesso genio e gli stessi ricci giganti, esaudisci l’unica richiesta che gli ho gridato, nell’ultima riga de La colazione dei campioni (ovvero Addio, triste lunedì!). Ti prego: fammi giovane, fammi giovane, fammi giovane!”

martedì 15 novembre 2011

L'intervista del secolo

Oggi sul Secolo d'Italia Roberto Alfatti Appetiti parla di "Anticipi, posticipi".








Qui sotto invece la mia intervista completa (ovvero l'intervista del secolo):



Come si sono trovati Savio il romantico e Gurrado lo storico, cosa vi unisce e cosa vi divide?

Chiedo scusa, ma fatico a ricordare. Qualcuno, forse Luciano Moggi o il comune amico scrittore Livio Romano, mi segnalò il talento di Gurrado. Andai a controllare. Dai suoi scritti traspariva una forza controllata, uno stile, che non mi lasciò indifferente. Mi univa a lui qualcosa, lo sentivo, come nati per caso distanti (lui a Bari, io a Brescia) ma in fondo simili. Lo storico e il romantico, vero, ma la distinzione non è così netta. Io passo molto tempo guardando Rai Storia, ad esempio, e mi risulta che Gurrado ne trascorra altrettanto seguendo le trasmissioni di Rai Romantica. Eppure, devo ammetterlo, non posso negare di essere romantico. Non esistono più gli uomini di una volta, si dice, e onestamente penso di essere uno dei pochi che va ancora allo stadio con un mazzo di fiori.

Mi divide da Antonio la scelta della squadra del cuore: lui del Milan, io della Juventus. Ma non essendo tifosi nel senso peggiore del termine, è più che altro una distinzione di righe verticali da abbinare al nero. Rosse nel suo caso, bianche nel mio. Mi unisce a Gurrado un certo modo di vedere il calcio, direi sospeso tra quello che accade in campo, dentro la Tv, e ciò che succede invece in alcuni libri che amiamo.


Com'è nata l'idea del libro?

Grazie ai Mondiali del 2010. Al desiderio non realizzato di essere inviati da qualche testata giornalistica coraggiosa in Sudafrica, per commentare le partite del Campionato del Mondo. Abbiamo trovato comunque la maniera di farlo, altrove rispetto a dove avremmo voluto essere: Milano, Parigi, Gravina di Puglia, Brescia. Dai Mondiali siamo poi passati alla Serie A. In un calcio ormai spezzatino, vergognosamente privo di polenta, cosa non era stato mai fatto? Forse vivere gli Anticipi e i Posticipi scegliendo noi le partite da anticipare e posticipare. Nel passato, per quanto riguarda Gurrado, in un presente scelto invece dal posticipatore sia per quanto riguarda la partita fuori orario, sia per l’accompagnatore/scrittore vicino di posto sugli spalti, o sul divano.
Una volta scritti gli Anticipi e i Posticipi, abbiamo pensato alla bellezza di vederli raccolti in un libro, come un almanacco calcistico letterario, un album delle figurine di calciatori e scrittori.


Perché la dedica al Guerin sportivo?

Perché sono cresciuto leggendo il Guerin sportivo, anno dopo anno, superando anche, verso gli otto, lo schock di comprendere che il settimanale del guerriero in pantaloncini bianchi e canottiera verde che, con i piedi sulla V e sulla O, lanciava una penna come fosse un giavellotto, non si chiamava così perché anche mio padre di nome faceva Guerrino. Più avanti, il Guerin per me è stato una cura per resistere, mentre il calcio che avevo scoperto da ragazzino scompariva, inghiottito da troppi soldi, dal degrado culturale e sportivo di un popolo sempre più allo sbando, abile a dividersi in fazioni, religiosamente convinte di essere il bene contro il male, di avere comunque ragione. Anche oggi, vedo il Guerin come un ritrovo mensile di appassionati di calcio, che potrebbero tranquillamente trascorrere serate a parlare di pallone, senza recitare slogan come trasformati nell’avvocato difensore della propria squadra preferita. Insomma, il Guerin sportivo compie 100 anni, e ci pareva bello soffiare su quelle candeline.


Il calcio spezzettato e divorato dalle pay tv può tornare ai fasti comunitari e identitari del passato? avete una ricetta al riguardo?

Ci risiamo, ci danno lo spezzatino senza polenta. La polenta mancante è l’aspetto popolare del calcio che ci è stato sottratto. In una canzone il grande Giorgio Gaber, ironizzando sulla comparsa di campi da tennis in alcune fabbriche per far giocare anche gli operai al “gioco dei padroni”, ad un certo punto sbottava:
“Ma giocate al calcio, cazzo!”
Mi manca quest’aspetto popolare, ma più che lo spezzatino è l’immagine del calciatore come viene rappresentata oggi ad infastidirmi, una specie di star a tutto campo (non solo quello di gioco). E la deriva del giornalismo sportivo (e non solo sportivo), salvo rare eccezioni lasciato in mano a scribacchini mediocri assunti per raccomandazione, a provocatori, a tristi impiegati impolverati come i loro articoli, funzionali anche qui a chi li paga o alla squadra che devono sostenere e/o difendere.
Ricette, non ne vedo. Ci vorrebbe un azzeramento, simile a quello di cui avrebbe bisogno la classe politica e dirigente italiana. Ma anche questo non credo basterebbe. Il problema insanabile sta, a mio avviso, nella “malafede”, carattere distintivo secondo Curzio Malaparte del popolo italiano. E da un popolo in malafede io non mi aspetto e non pretendo nulla.


Quale è (o sono) la bandiera del calcio ancora in giro per i campi?

Ritengo Michel Platini e Diego Armando Maradona due bandiere del calcio mondiale. Una di buon governo, l’altra di opposizione.


Consigliereste a vostro figlio - quando ne avrete - di giocare al calcio oppure...

Certo, ma all’oratorio. Mio figlio comunque nascerà a gennaio, e sarà compito di suo padre porgli fin da subito una delle prime, fondamentali domande della vita:
“Ti senti più centrocampista o attaccante?”


Infine, un'autobiografia: chi sei, che fai e perché lo fai?

Sono Francesco Savio: libraio, scrittore, lettore per l’editore Giangiacomo Feltrinelli ma soprattutto ex trequartista. Faccio queste cose perché Andrea Agnelli non mi ha ancora chiamato alla Juventus. Per raccogliere i palloni alla fine di ogni allenamento, o allacciare le scarpe a Del Piero adesso che il capitano è vecchio e fatica a piegarsi con la schiena. Tuttavia, ringrazio il presidente bianconero per avermi scritto, un anno fa, un biglietto contenente delle frasi di apprezzamento per il mio primo romanzo “Mio padre era bellissimo”.

mercoledì 9 novembre 2011

Anticipi, posticipi



Da oggi, nelle migliori librerie: "Anticipi, posticipi".



Il mio nuovo libro, con Antonio Gurrado.



Prefazione di Roberto Beccantini.



Da quando la sacra domenica del pallone s’è parcellizzata in innumerevoli partite del pomeriggio prima alle 18, del giorno stesso alle 12:30, della sera dopo alle 20:45, è diventato impossibile seguire il calcio come uno sport immanente, vissuto sull'attimo, hic et nunc; è invece diventato obbligatorio considerarlo trascendentalmente, con lo sguardo strabicamente rivolto al passato e al futuro, in una catena ininterrotta di anticipi e posticipi.
Antonio Gurrado, che è uno storico, guarda all’indietro e domenica dopo domenica individua una partita che è stata grande anni e anni fa, scovandone il motivo d'interesse nella smorfia dimenticata di un campione, nella scena secondaria di un film, in una spiazzante indagine sociologica. Francesco Savio, che è un romantico, guarda in avanti e domenica dopo domenica chiede a uno scrittore diverso (sovente deceduto) di accompagnarlo sugli spalti di uno stadio o davanti al decoder di Sky, trovando una frase, una descrizione, un’interiezione che dia un appiglio eterno al campionato in corso, altrimenti insensato. Anticipi e posticipi raccoglie gli scritti occasionati dalla Serie A 2010-‘11 inseguendo a ogni giornata le maglie, la storia, l’ideale di insopprimibile bellezza che anche la partita più insospettabile nasconde.

lunedì 7 novembre 2011

Il posticipo_Napoli-Juventus (Una domenica d’impazienza)

Domani sera alle nove a casa tua. Appena sveglio avevo riletto il primo romanzo di Raffaele La Capria in poche ore, come a voler rivivere il tempo narrativo di un giorno in quello domenicale di lettura. Se il protagonista senza nome di Un giorno d’impazienza sperava che il suo appuntamento con Mira (ma in realtà con la Realtà) coincidesse con lo sbucare in qualche modo dall’altra parte dell’adolescenza, io mi accontentavo di sperare che il mio appuntamento serale significasse semplicemente giungere al termine di una giornata piovosa e lavorativa.

Poi sul tram per andare in libreria o allo stadio San Paolo, il negativo del finestrino mostrava l’ombra del mio volto, alla ricerca pure io della mia Mira, donna o meglio segreto per dare forma organizzativa al mio presunto stile. Ma se la Mira chiara di pelle come la sua collana di perle aveva cuore solo per l’arrestato Walter e non per l’io di La Capria, la mia ugualmente pareva temere l’evasione di prigione di un altro Walter, in galera per non essere mai stato capace di ammettere una sconfitta senza chiamare in causa l’arbitro, la sfortuna, il vento.

Verso mezzogiorno, poco dopo aver oltrepassato i Giardini della Villa Comunale, la pioggia sempre più violenta batteva contro il tetto del tram e le voci dei napoletani facevano arrivare anche alle mie orecchie la notizia di un morto, a Pozzuoli, colpito da un albero mentre era in automobile. Partita rinviata e tutti giù dal tram, ma già che ero a Napoli, andiamo a vedere questo famoso Nottambulo.

Nel locale dove Mira andava con l’amica Gina a farsi fottere da chi capitava, più che altro per passare il tempo, trovo Raffaele giovane intento ad aspettarla, a bere pernod fino a stare male. Prima che questo avvenga, siedo al suo tavolo, ordino a mia volta, il cameriere versa l’acqua nel bicchiere e il liquido diventa fumoso, lattescente. Lo bevo tutto d’un fiato e ne ordino un altro, perché Mira sostiene che inizia a funzionare solo dopo il secondo bicchiere. Sa di anice, e con l’impaziente al tavolino parliamo della partita che avrebbe potuto essere: un Napoli stanco dopo la trasferta di Monaco di Baviera, una Juventus lanciata dopo la vittoria sull’Inter. Di Lavezzi e Matri, di Inler grazie al cielo senza maschera del Re Leone e di Arturo Vidal con i capelli più alti nel mezzo. Napoli, Juventus.

Dopo l’ultimo pernod il maestro Raffaele appallottola stizzito la lettera che stava leggendo con amara emozione. Si alza ed esce dal Nottambulo, lo seguo. Investiti da un aria umida, autunnale, che proviene dal mare, diamo calci alla pallina di carta. Ecco Cavani che tocca per Hamsik, contrastato da Marchisio. Superiamo prostitute, macchine che passano veloci libere dal giogo dei semafori. Per una giornata avevamo atteso senza pazienza ed ora che restava di Mira, della partita?
Solo una parodia, il nostro essere ridicoli, pronti a ricominciare tutto da capo con le stesse parole e gli stessi pensieri, per ritornare nel cerchio al punto di prima e dire e fare le stesse cose, per ricadere, come se non ne avessimo avuto già abbastanza, in un altro giorno, in un’altra domenica d’impazienza.

venerdì 4 novembre 2011

Berlusconi al Festival di Cannes

Silvio Berlusconi è tra i favoriti per la conquista della Palma d'oro al Festival di Cannes.

lunedì 31 ottobre 2011

Il posticipo_Inter-Juventus (Tonio Kroeger Conte)



Se ne stava in disparte Tonio, ragazzo bruno dai lineamenti disegnati con nettezza meridionale, fra ragazzi biondi e azzurrini, a disagio nel suo essere altro rispetto ai compagni di scuola. Come Hans Hansen (ciò che avrebbe voluto essere) straordinariamente bello e ben fatto, largo di spalle e stretto di fianchi, due occhi come l’acciaio. Oppure come la bionda Inge, dotata pure di leggere efelidi sulla sella del naso, tipiche delle ragazze di carta in certi romanzi.

Perché Tonio era diverso? Perché mentre gli altri parlavano, lui provava dolore?
Che camminasse sul marciapiede a fianco di Hans (lui provvisto di agili gambe che procedevano con ritmata elasticità, Tonio invece con passo indolente e diseguale) o che osservasse la bionda Ingeborg Holm, trasognato nello scoprila degna d’essere amata solo perché circondata da una certa luce, mentre lei pareva avere occhi solo per il maestro di ballo Francois Knaak.
Tonio non aveva scampo. Diverso in un mondo di uguali, da quando si era saputo che teneva pure un quaderno in cui scriveva poesie la sua popolarità a scuola era crollata non solo tra i compagni, ma anche tra i professori. Comporre versi una pericolosa stravaganza, una sconvenienza, qualcosa di sconcertante.

E allora eccolo solitario Tonio, al parco, in disparte a leggere Schiller, quasi nascosto a bordo del campo dove con altri ragazzi giocavo a pallone. Scorgendolo, avevo dovuto insistere non poco prima di convincerlo ad unirsi a noi, ma con il passare dei giorni l’evidenza del suo talento era risultata chiara. Era proprio la sua andatura sghemba e a scatti a consacrarlo superiore a tutti noi, e dopo averlo perso di vista per qualche anno non mi aveva sorpreso vederlo esordire nel 1991 con la maglia della Juventus, lanciato da Giovanni Trapattoni. Accantonata l’idea di trasformasi in un scrittore affermato, Tonio aveva scelto il calcio, e la sua carriera avrebbe confermato la felicità della sua intuizione.

Terminata la vita da calciatore, ecco quella di allenatore e nell’estate del 2011 la realizzazione del suo più intimo desiderio: guidare la Juventus. Per quanto mi riguarda in vita invece niente di così bello e clamoroso, ma almeno il privilegio di poterlo osservare dentro la televisione allo stadio San Siro, una sera di fine ottobre. In piedi davanti alla panchina, Tonio adesso non prova più dolore, ma urla per novanta minuti.
Inter e Juventus consegnano alla storia del campionato una partita bella, aperta da un goal del montenegrino Vucinic, talvolta pure lui indolente come il Kroeger di Thomas Mann ma abile nell’occasione a togliersi le mani di tasca in tempo per ribadire in rete una respinta di Castellazzi al tocco sottoporta di Alessandro Matri: 0-1. I nerazzurri reagiscono e trovano il pari con un bel tiro di Maicon deviato da Bonucci, Buffon sul primo palo non c’arriva. Ma sono ancora i bianconeri a riportarsi in vantaggio per merito di un preciso triangolo Marchisio-Matri-Marchisio che consente al Saint-Exupéry di Torino di segnare dal limite con un colpo rasoterra ad effetto: Inter 1, Juventus 2. La squadra di Ranieri non ci sta, e Pazzini con uno splendido colpo di testa centra la traversa a portiere battuto, ma al quarantesimo del primo tempo l’arbitro Rizzoli riesce a non assegnare alla Juventus un rigore talmente netto che perfino l’interista Beppe Bergomi in cabina di commento, seppur con qualche curioso distinguo, avrebbe concesso. Castellazzi abbatte Marchisio che cercava di superarlo con un pallonetto d’esterno, e può far sorridere immaginare come l’episodio a maglie invertite avrebbe fornito (molto più del risibile a confronto contatto Ronaldo–Iuliano) al povero Moratti, sempre tristemente puntuale a vedere nelle sconfitte sul campo segnali di complotti universali e mai una legge dello sport, una sublime e quasi eterna opportunità di lamentazione. E poi chi lo sa, sarebbe potuta rinascere una nuova pseudo letteratura calcistica indignata fino a quando non si vince, alla Beppe Severgnini per intenderci o, nella peggiore delle ipotesi, la decisione di affidare all’amico Guido Rossi la distribuzione di titoli vinti sul campo da altre squadre.
Per fortuna comunque, l’arbitro non dava il rigore e si andava al riposo sul due a uno.

Nel secondo tempo il risultato non cambiava, con la Juventus impegnata a controllare le volenterose ma confuse idee di pareggio dell’Inter, sfiorando peraltro in tre occasioni la rete che avrebbe chiuso il match. Tonio Kroeger Conte correva in campo per abbracciare i suoi giocatori, invitandoli a festeggiare mano nel mano sotto il settore dei tifosi ospiti. Poi, nel rientrare sottoterra, forse pensava a quella lettera che non aveva mai scritto, nella quale tuttavia avrebbe affermato:
“Il mio amore più profondo e segreto appartiene ai biondi e agli occhi azzurrini, ai luminosamente vivi, agli esseri felici, amabili e comuni. Non biasimi quest’amore, Lisaveta; esso è buono e fecondo. C’è dentro un desiderio struggente, una malinconica invidia, un pochino di disprezzo e una grande, casta felicità.”

lunedì 24 ottobre 2011

Il posticipo_Manchester United-Manchester City (Mario Balotelli-Woolrich: sipario rosso e nero)



La sensazione di Cornell Woolrich era che il mondo fosse controllato da forze malvagie pronte ad avventarsi contro gli uomini. Un’idea di vita complicata che, dopo un’infanzia e un’adolescenza movimentate trascorse tra New York e il Messico, l’aveva spinto una volta adulto a passare da una pensione all’altra, accompagnato immancabilmente da una madre possessiva e tirannica dalla quale non riusciva e non voleva liberarsi. Stare nascosto a scrivere gli era sembrata la soluzione meno dolorosa, cercando di ridurre al minimo le uscite all’aperto, figuriamoci le passeggiate. Cornell insomma non si sarebbe lasciato fregare come l’amico Frank Towsend, scomparso da se stesso per tre anni prima di essere riportato alla propria vita da un pezzo di cornicione preciso nel colpirlo in testa.
Cos’era accaduto in quei tre anni di ombre? Sua moglie l’amava ancora? Perché un uomo vestito di grigio lo seguiva armato di pistola? Quante belle partite si era perso in tre anni di oblio? Perché capitavano sempre tutte a lui?

Nella sua fuga a protezione del passato e della propria identità Frank però non può contare che su Cornell, a sua volta impegnato nel trasformarsi in William Irish o in George Hopley per aggirare il contratto che lo lega in esclusiva al suo editore e poter così pubblicare per altri.

Frank Townsend, in testa il cappello con le iniziali di qualcun altro (MB) che tuttavia calza alla perfezione sulla sua testa, trova Woolrich nella sua stanza del residence “Le Rose” ubriaco marcio ma ancora intatto, inconsapevole che il peggio nella sua vita debba ancora arrivare: la morte dell’amata madre, l’alcolismo cronico che aggraverà le sue condizioni di salute, l’amputazione di una gamba, la fine in solitudine e paralizzato.
Ma almeno adesso, una visita troppo a lungo aspettata: quella di Frank, tecnico di Fastweb, compagnia che aveva garantito a Cornell il trasloco dei servizi in “soli” 30 giorni, all’incomprensibile costo di 70 euro. E in attesa che il fantomatico tecnico giungesse, nessuna possibilità di vedere alcuna partita su Sky, pur versando la quota mensile di 59 euro circa. Esasperato l’autore di “Sipario nero”, il calcio suo unico svago, la visione del medesimo oscurata pur pagando, ennesima riprova (a suo depresso avviso) di un mondo selvaggiamente indifferente al dolore degli uomini e pronto a schiacciarli con un’efficienza quasi impersonale.

E allora sotto di nuovo a scrivere, per far entrare almeno sulla carta lo smemorato Townsend nella sua stanza di residence, così tristemente simile all’ultima di Marco Pantani.
“Ben arrivato Frank. Prima di farci un bicchierino m’installi la videostation per favore?”
“Certo mio creatore, provvedo, poi scegliamo quale partita vedere, il derby di Manchester mi sembra la migliore.”

Nel Teatro dei Sogni, Frank Townsend osserva uno simile a lui sbloccare la partita al ventunesimo minuto e ventunesimo secondo del primo tempo, con un preciso colpo di piatto rasoterra indirizzato nell’angolino. Si tratta di Mario Balotelli, che dopo aver provato invano ad incendiarsi la casa appena due giorni prima giocando con dei fuochi d’artificio nel bagno, mostra una maglietta con la scritta: “Why always me?”. Ammonito. Il Manchester United non reagisce, anzi esce definitivamente dalla sfida al secondo minuto del secondo tempo quando Evans trattiene ingenuamente sempre SuperMario lanciato a rete. Espulso, e da questo momento i Citizens dilagano: ancora Balotelli che appoggia in porta dopo una bella combinazione Silva-Milner. Poi Aguero al volo fa tre a zero e Fletcher segna il goal della bandiera a dieci dalla fine, ma non è finita. Dall’ottantanovesimo in poi ci pensano Silva e due volte Dzeko a fissare un risultato storico per il derby di Manchester: United 1, City 6.

Il tecnico Townsend-Fastweb a questo punto non sta più nella pelle ed esulta spudorato, togliendosi il giacchettino con il logo giallo sulla schiena per mostrare all’inventore del noir perché finora è toccato sempre a lui. La sua t-shirt “Why always me?” è la medesima dell’italiano Mario, genio d’artificio. Poi il ritorno nel romanzo, sotto la penna frenetica e disperata di Cornell Woolrich, diavolo rosso triste e maledetto.

mercoledì 19 ottobre 2011

Il posticipo_ Lazio-Roma (La radiolina biancoceleste di Walt Whitman)




Lo ricordo come fosse ieri (invecchiando, almeno qualcosa resta, non tutto va perduto). Walt Whitman seduto da solo all’aperto, sulle spiagge di Long Island, tra le influenze dell’aria aperta, leggere il Vecchio e il Nuovo Testamento, poi Omero, Eschilo, Dante, Shakespeare.
Scorgendolo nei miei diciassette anni, intimorito dal suo splendore di non ancora poeta, io autodidatta come lui sebbene quasi geometra, leggendo invece “Il mestiere di vivere” di Cesare Pavese, sotto lo sguardo vacanziero ma turbato di mia madre:
“Perché mio figlio studia il mestiere di vivere invece che trovarsi un buon lavoro?”

Qualche anno dopo sempre Walt, vestito come un contadino, un operaio, reduce da un viaggio a New Orleans capace di trasformarlo in una foglia d’erba uguale a un giorno di lavoro delle stelle, questa volta sulla spiaggia di Ostia, questa volta a scrivere versi, così assorto nella necessità di trovare una risposta alla vita, alle domande che ricorrono, agli infiniti cortei di senza fede, agli occhi che bramano luce, ai poveri risultati di tutto…così assorto dal dimenticarsi che fosse domenica, e di essere ormai troppo lontano per tornare a casa in tempo alla Garbatella per vedersi il derby in televisione. Che fare?

Nella disperazione da appassionato, intercettare un venditore migrante da spiaggia e pagargli trenta dollari una radiolina, costo automaggiorato per compensare l’odioso tira e molla per abbassare il prezzo esercitato da certe carni umane sui salviettoni, abili a sfruttare penosamente il gran vantaggio di essere nati dalla parte giusta del mondo.
Whitman e la sua radiolina, io poco distante a origliare Tutto il Calcio minuto per minuto che racconta di Lazio-Roma.

Si gioca, dopo qualche incertezza relativa agli scontri di piazza del giorno prima, con la capitale messa a ferro e fuoco da ottocento black bloc non previsti da un Ministro dell’Interno jazzista, troppo impegnato ad esercitarsi (almeno il sabato) con il saxofono per occuparsi anche dell’ordine pubblico. Cinque minuti e la Roma passa in vantaggio con Osvaldo, freddo a superare Marchetti al termine di una bella combinazione José Angel-Pjanic-Gago. Quindi la partita sonnecchia fino a quando l’elegante Hernanes non decide di accendere la luce, trascinando con la classe dei campioni il resto dei compagni. Dribbling, tiri da fuori, anche il sollevamento di una zolla scagliata con violenza verso la porta giallorossa, parziale consolazione per tutti i privi di talento del mondo (anche i fenomeni brasiliani talvolta zappano).
Al sesto della ripresa Kjaer commette il fallo decisivo, trattenendo ingenuamente Brocchi lanciato a rete. Espulso. Il ballerino Hernanes questa volta non alza zolle e dal dischetto spiazza Stekelenburg con un calcio morbido e insieme deciso. Lazio 1, Roma 1.
Luis Enrique toglie Perrotta e mette Burdisso, ma i Lupi soffrono. Il biondoneropunk Cisse colpisce un palo splendido con una botta al volo, osservato dal suo allenatore incredulo e deluso (“anche stasera, non vincerò il derby”). Invece, al novantatreesimo, Miroslav Klose dimostra perché è ancora uno dei più forti bomber d’Europa: stop matematico su lancio-pallonetto di Matuzalem, piattone rapido ed è 2-1.
Il serio Edy Reja si trasforma in Carletto Mazzone e corre in campo, grigio e paonazzo, a cercare il suo centravanti tedesco-polacco preferito per ringraziarlo. Non lo troverà.
Klose è già sotto la curva Nord che recita ai tifosi in delirio:
“Io celebro me stesso, io canto me stesso.
E ciò che io presumo, presumetelo anche voi.”
Luis Enrique a occhi bassi verso il tunnel degli spogliaotoi è assai più pessimista, pur con un filo di speranza:
“Che cosa c’è di buono in tutto questo, ahimè, ah vita?
Che io sono qui, che esiste la vita e l’individuo, che il potente spettacolo continua, e io posso contribuirvi con un mio verso.”

giovedì 6 ottobre 2011

Il posticipo_Juventus-Milan (Il pazzo Allegri, il savio Conte, il piccolo principe Marchisio)



“Soprattutto quando ero bambino, la noia assumeva forme del tutto oscure a me stesso e agli altri, che io ero incapace di spiegare e che gli altri, nel caso di mia madre, attribuivano a disturbi della salute o altri simili cause.”
(Alberto Moravia, La noia)


Non era la prima partita che Balestrieri e Dino guardavano insieme, espediente come altri per stabilire chi dei due avesse ragione nei confronti della realtà. Balestrieri era forse un pazzo la cui pazzia consisteva nell’illusione di poter avere un rapporto con la realtà, ossia di essere savio, come cercavano di dimostrare le sue tele di anziano pittore. Dino era forse un savio la cui saggezza, però, consisteva nella profonda convinzione che tale rapporto fosse impossibile, in definitiva un savio che si credeva pazzo.

Stufi di dipingere, di fuggire dalla morte Balestrieri, dalla madre Dino, entrambi dall’amore e dal sesso con la bella Cecilia, graziosa ma dopo un po’ pure lei noiosa, nonostante i futili tentativi di Dino di appropriarsene in modo totale rubandola al Balestrieri, facendo l’amore con lei, coprendo il suo corpo nudo di banconote...nonostante tutto questo, la noia di quando era bambino prepotente ritornava, quello stato non contrario al divertimento comunemente inteso, anzi forma di divertimento essa stessa, perché capace di produrre distrazione e dimenticanza, sia pure di un genere particolare. Una noia come insufficienza, inadeguatezza, o scarsità della realtà.

E allora perché non alzare il telefono e chiamare Balestrieri, prima che morisse?
“Sono Dino, vediamoci in un bar dove danno Juventus-Milan, e confrontiamo ancora una volta le nostre realtà, pazzi o saggi.”

Oltre i rumori del locale abitato dai temibili tifosi delle fazioni contrapposte, divise in fondo solo da una riga bianca invece che rossa, oltre le loro grida arrossate, nel tavolino ad angolo, Balestrieri e Dino, senza dipingere donne o nature morte, guardavano.
La realtà sussurrava ad alta voce di una Juventus che correva, e di un Milan che camminava. Dei bianconeri di un frenetico Conte che attaccavano per vincere, dei rossoneri di un nervoso Allegri che speravano in un contropiede. Finiva 0-0, dopo una traversa di Vucinic e altri 18 tiri bianconeri (7 nello specchio della porta) contro i 5 dei rossoneri (1 nello specchio della porta). Troppe occasioni sprecate da una scalognata Juventus. Anzi no.
A tre minuti dalla fine, il piccolo principe Marchisio riceveva sul piede, sotto forma di rimpallo, tutta la fortuna che per ottantasette minuti si era crudelmente negata all’undici torinese, peggio di Cecilia quando disertava gli appuntamenti con Dino per mostrasi a qualcun’altro. Al minuto novantadue, ancora Marchisio questa volta al volo da fuori area, sorprendeva il poco concentrato Abbiati sotto le gambe. Juventus 2, Milan 0.
Balestrieri e Dino restavano con i loro quadri inconciliabili e differenti, con la loro idea privata e difforme di rapporto con la realtà. Allegri annoiato dal risultato preferiva litigare con l’opinionista Sky Mauro. Conte svociato nonostante le caramelle al miele pre-partita, rincorreva e abbracciava uno alla volta i giocatori che, almeno per una sera, avevano fatto resuscitare una Vecchia Signora.

venerdì 23 settembre 2011

Il posticipo_Juventus-Bologna (Das Schloss: l’agrimensore e Gesù Pirlo)

Ho trascorso molte mattine nel Castello della mia città. Prima arrivavo di fronte alla scuola, guardavo il portone d’ingresso per qualche minuto ma invece che varcarlo preferivo tornare indietro e salire il colle almeno fino al piazzale della locomotiva. Il Castello aveva tre piani, quello che ospitava una vecchia locomotiva di colore nero era il primo, ma volendo uno poteva ascendere verso il secondo, o addirittura il terzo. Ho imparato più in quelle mattine che in tanti anni di presunte lezioni. Dall’alto, m’interrogavo sulla disposizione del verde nella mia città, su come piccole apparissero le cose, nonostante tutti giù in basso si dessero un gran d’affare. Sempre sotto, un campo da calcio una volta in sabbia (oggi sintetico) era circondato da case color panna. Di domenica, quando talvota ugualmente salivo in Castello, apprendevo però molto meno che durante la settimana, per misteriosi motivi, e da quel campo provenivano grida, boati ridotti diretta conseguenza di azioni che terminavano bene o male per quanto riguardava la porta che riuscivo ad osservare, e in modo ignoto, per ciò che riguardava invece la porta che senza dubbio si nascondeva dietro una delle case color panna. Ad un certo punto, stufo di non sapere, scendevo rapidamente dal colle per giungere veloce in pianura, sperando che nel frattempo non accadesse qualcosa d'importante ai fini di risultato, o peggio che l’arbitro non fischiasse meschinamente la fine dell’incontro prima che io potessi giungere a destinazione. Da bordo campo, oltre la rete metallica verde, tutto solitamente proseguiva, però in modo meno emozionante. Davo la colpa agli altri che mi circondavano, alla solitudine osservante che non c’era più, ma nemmeno io ne ero poi convinto fino in fondo.

Queste cose, e altre, mi sono tornate in mente viaggiando in automobile verso Torino, trepidante come in cima al castello per la partita alla quale avrei successivamente assistito, per sicurezza dall’alto del secondo anello. L’emozione che di lì a poco m’avrebbe invaso, sarebbe stata maggiore o minore rispetto alle mie aspettative? Il padrone del Castello, conosciuto con l’enigmatico nome di Gesù Pirlo, avrebbe accettato di ricevermi dopo avermi convocato? O invece sarei stato continuamente ostacolato da burocrati e funzionari?

A digiuno per il lungo viaggio verso il Castello, esausto per la coda all’italiana obbligatoria per passare in centinaia attraverso una porta stretta, stupito per la presenza di bancarelle con prodotti ufficiali circondate da bancarelle vendenti merce contraffatta, imperiture nella loro illegale presenza (forse perché gestite dalla camorra?) avevo la certezza di non essere l’unico agrimensore chiamato a Torino. Cercavo di entrare in confidenza con gli altri invitati nel nuovo Castello per ammirarne il profilo grigio ornato di strisce bianche rosse e verdi, ma la loro ostilità nei miei confronti mi faceva quasi addormentare, proprio quando uno di loro era pronto a fornirmi un piccolo aiuto. Mi risvegliavo oltre il tornello, colpito dalla bellezza di due ragazzine indossanti il completo della Juventus, messe lì presumevo per accogliere noi agrimensori, immediatamente eccitati dall’idea che almeno a uno tra i quarantamila, magari scelto mediante sorteggio, fosse concessa la sublime ipotesi di baciare una delle due belle bianconere.

Invece la rivelazione finale, giunta purtroppo dopo la morte del caro Franz K., autore del Castello, era più semplice: il padrone Gesù Pirlo aveva deciso di convocarci tutti allo “Juventus Schloss” solo per essere lodato, solo per mostrarci l’interezza del suo biblico repertorio. Veroniche e assist, finte e controfinte, lanci illuminanti, tiri prodigiosi e improvvisi da trenta metri che non diventavano goal solo a causa della bravura di un portiere Gillet. Juventus Bologna terminava 1-1, complice la sciocchezza montenegrina di Vucinic nel farsi ammonire e poi espellere, dopo aver segnato. Complice il pareggio del rossoblu Portanova su errori marchiani di De Ceglie e Chiellini, e un arbitraggio così insicuro e incompetente da apparire tristemente quasi, anzi certamente italiano.

E qui, il mio racconto s’interrompe. Dopo un necessario panino con salamina, una birra prima dell’autostrada, finalmente una pipì nascosto dietro una macchina e un albero, mi sono sentito finalmente accolto dagli abitanti del villaggio.

lunedì 19 settembre 2011

Il Posticipo: Napoli-Milan (L’unica cosa sicura è il vento lungo il marciapiede di via Chiatamone)

Pare che Giorgio Bassani scoprì di essere Bassani nell’estate del’44, a Napoli, la sera in cui ebbe il coraggio di uscire dalla sua tana per qualificarsi come “io”, dopo un pomeriggio speso interamente in una stanzetta di pensione riuscendo a scrivere solamente cinque o sei righe. Cosa avrebbe potuto attendersi dal futuro? Non sarebbe mai divenuto un romanziere come Soldati, Moravia, Pratolini, capaci di accumulare centinaia e centinaia di pagine. E allora che fare? Accettare di essere “solamente” un poeta, per giunta preoccupato dalla momentanea assenza di poesie? Limitarsi a passeggiare ubriaco lungo il marciapiede di via Chiatamone?

E’ invece certo che l’anonimo narratore dei Finzi-Contini, ebbe l’impulso di scrivere la storia di Micòl e Alberto, del professor Ermanno e della signora Olga una domenica d’aprile del 1957, durante una gita in compagnia di amici alla necropoli etrusca di Cerveteri, osservando tombe antiche che facevano meno malinconia di quelle nuove, case definitive per morti lontani che era come non fossero mai vissuti.

Con ogni probabilità, se i due si fossero incontrati (Bassani e il narratore), magari per strada lungo il marciapiede di via Chiatamone, il primo si sarebbe risparmiato infelicità e tormenti, il secondo non avrebbe dovuto attendere diciotto anni per iniziare ad esistere, nel prologo di un romanzo meraviglioso fin dalla prima copertina Einaudi: una donna-montagna bianca e azzurra, con capelli neri, davanti ad un probabile cielo rosso, dipinto da Nicolas de Stael. A ben guardare, i colori di Napoli e Milan.

Con questa donna-montagna in testa, affascinante ma così diversa da come ho sempre immaginato Micòl Finzi-Contini, magistrale figura femminile conosciuta la quale è ben difficile innamorarsi di altre ragazze, in altri libri, al termine di una domenica lavorativa per certi versi orrendamente sublime nel separarmi dal mondo come l’antico giardino faceva con i personaggi del romanzo di Bassani, ho scavalcato il muro di cinta, ma invece di Micòl tredicenne pronta a consolarmi per essere stato rimandato in matematica, mi sono ritrovato allo stadio San Paolo per la partita.

Dentro, centomila occhi mi accompagnavano nell’osservare il volo in avanti quasi angelico del rossonero Alberto Aquilani per colpire di testa il perfetto cross di Antonio Cassano. Quindi, aveva inizio una lezione di calcio al pallone che il centravanti uruguagio-napoletano Edinson Cavani aveva l’accortezza di dividere in tre capitoli: al minuto numero tredici, colpendo al volo di collo in diagonale sfruttando l’assist di testa di Maggio. Al trentaseiesimo, fulminando Abbiati con un interno destro a giro sul primo palo dopo che gli addormentati centrocampisti del Milan avevano consentito a Gargano di percorrere settanta metri palla al piede. Al cinquantunesimo, ribattendo in rete di sinistro dall’altezza del dischetto una goffa respinta corta di Alessandro Nesta. Napoli 3, Milan 1.

Alla fine, fuori dallo stadio, saturo del rimorso per non aver avuto il coraggio di baciare Micòl, ma abbastanza soddisfatto per i novanta minuti intervallati da ben quattro goal, mi sono ritrovato barcollante lungo il marciapiede di via Chiatamone, razionalmente disperato dalla frenesia della vita ma tutto sommato quasi sereno scolpito da un vento, il più bello dell’anno dopo un temporale, unica cosa sicura nel suo portare a dissolversi ogni persona e ogni cosa.

lunedì 12 settembre 2011

Il posticipo: Juventus-Parma (Il campionato di Giovanni Drogo)

Fu al quarto “ploc” che decise di andarsene. Molte altre volte era stato solo, ma adesso che si trovava al buio nella sua nuova stanza, la prima da ufficiale, la prima lontana dalla famiglia, era una cosa ben diversa. Seduto sul bordo del letto, incapace di addormentarsi, guardava fuori dalla finestra brillare le stelle, una in particolare, verde, sorprendente nel suo scintillare, prima di sparire. Il tempo di emozionarsi, di chiudere gli occhi verso il non esserci più, ed era arrivato il primo “ploc” d’acqua. Poi un secondo, un terzo. L’idea istintiva di chiamare un soldato che, lanterna alla mano, non aveva risolto l’odioso disturbo, comunicando anzi al tenente Drogo l’ineluttabilità di quel rumore provocato dalla cisterna nascosta dietro una parete. Niente da fare. Al quarto rigurgito, la decisione.
Perché aspettare nella Fortezza che la giovinezza divenisse vecchiaia, che la pigrizia trasformasse la vita in un ripetersi di abitudini? Come evitare che l’attesa lo tramutasse in un militare come gli altri, sorretto dall’unica speranza che, prima o poi e alla faccia di certi sindacalisti riccioli e radical chic e di certi penosi burocrati a capo di leghe e federazioni, il campionato finalmente cominciasse?
L’amico Francesco Vescovi, che una mattina di settembre l’aveva accompagnato a cavallo attraverso campi di granturco e prati dalla città assonnata fino alla cima dell’ultima salita, aveva osservato Giovani cercare con lo sguardo la propria casa, la camera dove aveva sempre vissuto, e intuendo il momento delicato del novello ufficiale aveva estratto dalla tasca un regalo d’addio speciale: il biglietto per Juventus-Parma di domenica 11 settembre 2011.
“Non sei obbligato a stare tutta la vita alla Fortezza Bastiani. Se ti sentissi solo e triste parti, e vai alla partita”.

Al quarto “ploc” in piedi allora, quale occasione migliore per indossare il nuovissimo mantello senza timore di rovinarlo o sporcarlo, come un vestito della festa messo nel giorno giusto. Poi a cavallo verso il Piemonte, verso Torino, con le ali del mantello sventolanti come un bandiera. Così doveva accadere, e questa fuga da quel luogo enigmatico che gli avrebbe rubato il tempo forse era già stabilita dal momento in cui, solo qualche ora prima, Giovanni aveva osservato dal bordo di un pianoro la Fortezza apparirgli per la prima volta, nel greve splendore meridiano.

Parcheggiato il cavallo negli appositi spazi adiacenti al settore rosso 114, ecco il tenente spavaldo e spensierato dentro il nuovo stadio bianco nero giallo rosso e verde, nuovamente solo, ma questa volta felice di esserlo. Giovanni Drogo solo e felice, senza più tempo da aspettare, libero di osservare il genio di un generale-regista con il numero 21 sulle spalle, le avanzate e il primo goal del sergente Lichtsteiner. Quindi la pausa pranzo tra un tempo e l’altro, consumando fino in fondo il cibo conservato dentro la gavetta. Un’aggiustata al cappello per non farlo volare via, per proteggersi dal sole, poi ancora con lo sguardo a scrutare se qualcosa appariva sul deserto verde. E ne accadevano di cose. Un diagonale secco della sentinella tornante Pepe, un improvviso tiro al volo dal limite della guardia cilena Vidal, il quarto pallone in rete accarezzato in ascesa dal tenente Marchisio, il rigore finale del parmense riformato Sebastian Giovinco. Juventus-Parma, 4 a 1. Decisamente un bello spettacolo, in una giornata fondamentale per l’appassionato trasparente con il mantello-bandiera scappato a cavallo.
“Addio Fortezza Bastiani. Non sarò un uomo comune, ma Giovanni Drogo: ufficiale dimissionario, con tutta la vita davanti”.

martedì 6 settembre 2011

Lo scudetto secondo Savio

Mentre ero in ritiro pre-campionato in Val d’Ega, tra Eggen e Obereggen, forse per allenarmi a scrivere meglio la stagione successiva, nella notte tra il 25 e il 26 agosto ho ricevuto la telefonata dell’amico e bravo scrittore Antonio Gurrado, il quale mi ha posto alcune brevi domande per conto di Quasi Rete Gazzetta dello Sport prima di restituirmi all’amato sonno, isola benedetta di una solitudine ad alta quota. Le risposte mi sono giunte in sogno, ed eccole qua (aggiornate ad una settimana prima della chiusura del calciomercato).

1. Chi vince lo scudetto?
Abbiati-Thiago Silva-Ibrahimovic. Chi può vantare una colonna vertebrale migliore? E anche il resto dello scheletro non è niente male, con ossa come Nesta, Van Bommel, Pato, Boateng, e perfino Cassano se dimagrisce. Per questo vedo il Milan nuovamente Campione d’Italia.
2. Chi accede direttamente alla Champions League (ossia le due squadre che evitano i preliminari)?
Seconda piazza per la Lazio, esempio di ottima squadra costruita con intelligenza. A Lotito e Tare l’oscar del mercato per l'operazione Klose/Cissè, comprati con meno dei 9 milioni incassati per Lichtsteiner.
Terza l’Inter, coraggiosa nel seguire l’esempio gestionale della Juventus di Moggi e Giraudo. Vendere il fuoriclasse per rientrare almeno in parte del debito e sperare che qualche promessa o campione acquistato non faccia rimpiangere Samuel Eto’o.
Quarta la Juventus, incapace anche quest’anno di acquistare i tre top player che l’avrebbero avvicinata alle due milanesi. L’inadeguato Marotta si è limitato al solo, sublime Pirlo, il quale però non può bastare, se deve lanciare in profondità Giaccherini. Innesti potenzialmente importanti sono invece Vidal e Vucinic. Conte in panchina un valore aggiunto per grinta e mentalità. Gravi problemi in difesa se non arriverà qualcuno prima della sirena del 31 agosto. Giocare una partita a settimana potrebbe tuttavia rappresentare un vantaggio, come accade nel primo anno di Ranieri.
3. Chi retrocede in B?
Novara, Lecce, Catania.
4. Quale sarà la rivelazione del campionato?
Bojan.
5. Quale sarà la delusione?
Lamela.
6. Chi sarà il capocannoniere?
Matri.
7. Fin dove arriveranno le squadre italiane nelle Coppe Europee?
Napoli, Inter e Udinese (se passa) fuori agli Ottavi. Milan ai Quarti.
In Europa league italiane fuori presto, come al solito, con l’eccezione dell’Udinese declassata dalla Champions che potrebbe fare strada.

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sabato 27 agosto 2011

Il lettore d'estate



Sarà che ho sempre avuto un debole per i vortici. Sarà che, per questo motivo, ho sempre mangiato la torta di rose srotolandola, le Girelle Motta anche, le Kinder Brioss uno strato alla volta (per ultimo, quello al centro). Sarà che, da ragazzo, avevo l’abitudine di disegnare un pallino al centro di un foglio, colorarlo, e poi iniziare a scrivere in circolo, stando ben attento che le parole in fila circondassero il pallino restando a uguale distanza tra loro (le parole, le file di parole) pur continuando a trasformarsi in uragano. Sarà che ho dedicato discutibili raccolte di poesie a ragazze, ripetendo il pallino sulla seconda pagina bianca a disposizione, avvolto dalla dedica: Per…
Sarà che queste rose di torta, queste girelle, io non lo capivo, ma erano fogli da scrivere, o da leggere, che avrei probabilmente scritto, o letto, una volta finito di mangiare.
Sarà per questi motivi che il mio libro preferito di questa estate è L’ultimo lettore, di Ricardo Piglia. Un saggio? Un finto romanzo? capace di capovolgere la prospettiva. Il lettore, è il protagonista dei libri che legge. Spiando leggere Borges, Kafka, Joyce, il Che, mi sono ricordato di un ragazzo che, sognando di scrivere, si consolava pensando:

“comunque andranno le cose, nessuno mi potrà mai togliere il piacere assoluto di leggere”.

venerdì 5 agosto 2011

La tregua benedetta



Così ogni tanto vado in via Terraggio 21, sottoterra, dove una stanza nasconde libri usati. Prima passo in Sant’Ambrogio, sempre stupito di come la bellezza possa trasformarsi in mattoncini. Talvolta entro e faccio due passi, accendo una candela, osservo certi antiquati videotelefoni che vorrebbero raccontami la storia della basilica. Ma adesso, c’è Internet.


Nella stanza qualcosa trovo sempre, più spesso sono costretto controvoglia a scegliere. Diversi Morselli-Adelphi di un tempo mi guardano dalle librerie, ma li ho già. Però, che belli. Allora tocca a Mario Benedetti, edizioni Nottetempo.


La Tregua un romanzo straordinario, che respinge i miei iniziali e prevenuti dubbi relativi alla struttura diaristica. Da un febbraio all’altro una lezione di scrittura che mi tiene incollato, tranne quando alzo la testa e sorrido per le 6 euro spese, pensando a certe 18 o 20 richieste dal mercato per romanzi pessimi, costruiti in laboratorio per lettori pigri, scritti da individui vanitosi che urlano ai quattro venti di essere “scrittori” e di aver pubblicato molti libri. La quantità, prima di tutto.


Lunedì 29 aprile

Io sono rimasto lì per un bel po’, davanti alle mie carte, senza sapere che fare, ero commosso, credo. Mi sentivo scombussolato come da tempo non mi succedeva. E non era il nervosismo tipico di uno che vede una donna che piange o sul punto di piangere. Era un turbamento tutto mio, solo mio: il turbamento che viene dall’assistere alla propria emozione. E all’improvviso, nel mio cervello, la luce: allora, non sono inaridito! Quando Avellaneda è tornata, ormai senza lacrime e un po’ imbarazzata, io ero ancora intento ad assaporare egoisticamente la mia nuova scoperta. Non sono inaridito, non sono inaridito. L’ho guardata con riconoscenza e, siccome proprio in quel momento sono rientrati Munoz e Robledo, tutti e due ci siamo rimessi al lavoro, come obbedendo a un segreto accordo.
(Mario Benedetti)

martedì 2 agosto 2011

Due ore abbastanza gloriose

Due anni in due ore non sono niente male, specie se trascorsi al parco, in compagnia di Lodovico Terzi, indeciso se nascondermi, o imboscarmi. Ascoltando un soldato tedesco dire che: “la guerra è persa. E io vado a morire per niente”. Fumando una sigaretta in una casa di partigiani, invece che perquisirla. Tentando senza successo la fuga da un campo militare, dopo aver imparato che le sentinelle di turno fra la mezzanotte e le due sono le più addormentate, mentre quelle fra le due e le quattro sono le più infreddolite, e quelle fra le quattro e le sei le più spensierate. Perdendo madre e sorella, uccise in bicicletta dalla bomba di un aereo da ricognizione americano, chiamato Pippo. Due anni senza gloria, letti al parco in due ore abbastanza gloriose.

sabato 30 luglio 2011

Incoraggiando Alfonso

Alfonso Berardinelli non incoraggia il romanzo, io incoraggio la lettura di Alfonso Berardinelli.

“Se solo potessero, gli editori darebbero il nome di romanzo a tutti i libri che pubblicano: sembra ormai che ogni tipo di libro spaventi il lettore: il romanzo no. I libri di storia li leggono solo gli storici. I libri di filosofia li sfogliano solo i filosofi. I poeti non si leggono neppure fra loro. Le scienze sociali interessano poco: di società si parla sui giornali e la prosa sterilizzata dei sociologi respinge il lettore comune”.


Sarebbe potuto bastare questo inizio a convincermi. O certi articoli del critico romano che talvolta emergono luminosi dalle pagine del Foglio. Ma poi ho pensato anche alla comoda possibilità di portami in montagna Gadda, Moravia, Landolfi, La Capria, Parise, Busi, Mari e tanti altri. In un solo libro.

Così metto Berardinelli nel mio zaino, pronto per il Latemar. Probabile che si trovi a suo agio in compagnia delle Ombre bianche, di Due anni senza gloria, del Crollo, del Barile magico, e dell’Ultimo lettore.

sabato 23 luglio 2011

Mare, e Montaigne

Dopo questa, mi ritiro.
Montaigne non è un tipo da spiaggia, Sarah Bakewell invece sì. Per questo, ormai un mese fa, tra nuotate e colpi di racchetta effettuati andando a ripescare (ahimè con esiti altalenanti) stili e movimenti di certi miei tennisti preferiti, ho letto con grande piacere questo libro bianco. Come quei visitatori che giungevano alla tenuta di Montagne mossi per lo più dalla curiosità ma, una volta lì, perdevano la testa, sono caduto in una sorta di trance meditativa, percependo tutt’intorno lo spirito di Montagne come una presenza vivente. Per qualche istante, ho avuto la sensazione di essere lui. Ho pensato ad un colpo di sole, mi sono rifugiato all’ombra della sua torre, in attesa che l’intensità di questa passione svanisse.

venerdì 15 luglio 2011

Inter campione d’Italia, con Malaparte





Ricordo bene l’Inter 2005-2006. Una squadra importante, che grazie a frecce appuntite come Recoba e Martins riusciva a superare diverse volte in novanta minuti la metà campo avversaria, anche quando si scontrava con grandi squadre come la Juventus e il Milan di quel periodo.
Per questo, la dura relazione del procuratore Palazzi mi ha lasciato di stucco: ma come? Anche Giacinto Facchetti, dipendente di Massimo Moratti, telefonava ai designatori arbitrali? Davvero Giacinto invitava Bergamo a passare in sede per ritirare “il regalino”? Quello che era stato un calciatore stupendo, era un dirigente poco corretto?
No, non potevo accettarlo. Queste sotterranee e illegali manovre, quanto influivano sui perfetti movimenti in campo di Santiago Solari e Kily Gonzales? E quanto sul formidabile autogol da quaranta metri di Marco Materazzi a Empoli?

Di colpo certe architetture di splendente limpidezza crollavano. Anche l’Inter allora barava, e lo sventolato scudetto dell’onesta non era niente più che un ridicolo vessillo agitato con la bava alla bocca da una società troppo abituata a perdere, sempre sospettosa che dietro ogni sconfitta non ci fossero inferiorità tecniche e tattiche, ma complotti orchestrati da Luciano Moggi e Adriano Galliani.

Disperato, sono corso in edicola per comperare il Guerin Sportivo. Nella solita bella intervista a un campione del passato, Nicola Calzaretta strappava a Francesco Morini un aneddoto curioso. Nel 1978, il difensore bianconero aveva chiesto al compagno Dino Zoff di intercedere presso Bearzot al fine di essere convocato per i Mondiali argentini. In fondo il biondo stopper era l’unico della retroguardia bianconera del tempo a non essere titolare azzurro. SuperDino però gli aveva risposto:
“Francesco, io non le faccio queste str… e!”.

Sono tornato di casa. Ho finito di leggere il Guerin. Ho osservato in televisione l’aggressività di Moratti nel farsi scudo con il santino di Facchetti pur di non ammettere che anche l’Inter, barava. O che forse nessuno, barava.
Mi sono ricordato di un difensore poco leale e vestito di bianco, candido come le sue provocazioni in campo e fuori, che urlava con altri nerazzurri di vincere, senza rubare.
Del più importante quotidiano sportivo, capace di titolare:
“La sapete l’ultima? La Juventus chiede i danni”.
Di una formazione che faceva: Buffon, Zambrotta, Chiellini, Cannavaro, Thuram, Emerson, Vieira, Camoranesi, Nedved, Trezeguet, Del Piero (Ibrahimovic).

Allora ho pensato a Curzio Malaparte, al suo concetto di malafede come carattere distintivo degli italiani, sempre pronti a servire il potente di turno.
“Il vero, il solo programma di ogni italiano è di essere in buoni rapporti con il partito al potere”.

Ho pensato a Malaparte, a certi scudetti vinti grazie a goal decisivi realizzati con quattro giocatori in fuorigioco. Allo stile di José Mourinho. Al recente arbitraggio della Finale di Coppa Italia Inter-Palermo, terminata com’era meglio che terminasse.
Ho pensato a Malaparte, ho chiuso il Guerin, ho rivisto mentalmente la punizione di Del Piero all’incrocio in Inter-Juventus 1-2, dodici febbraio del 2006, simbolo di un campionato stravinto sul campo.

giovedì 30 giugno 2011

Inter nos



Ancorché juventino, ho partecipato volentieri a “Inter Nos - 23 storie in nero e azzurro”, in questi giorni in libreria.

Per il mio racconto “L’ascesi in rovesciata”, ho pensato all’Inter di un tempo, grande non in senso di risultati ma di sportività, per intenderci quindi quella precedente alla patetica messa in scena di calciopoli, al cartonato scudetto della presunta onestà. Una grandezza mi rendo conto attualmente poco di moda.
L’Inter di mio padre, di mio zio, l’Inter di altri tempi. Ma senza particolari nostalgie. Non ho parlato della squadra di Herrera insomma, o di quella di Trapattoni. Mi sono limitato a tenere l’Inter (e la Juventus) nello zaino, camminando verso la cima del Monte Ventoux, in compagnia di Francesco Petrarca.

domenica 12 giugno 2011

Uruguay-Francia (Perso in una breve vita celeste)

Per resistere alla feroce ingiustizia di un’estate senza Mondiali, torno indietro di un anno, quando in tribuna con Juan Carlos Onetti al mio fianco, ho scoperto la bellezza di una breve vita celeste.




Se i francesi sono gli italiani di cattivo umore, come sosteneva Jean Cocteau, gli uruguagi, che hanno qualcosa da spartire con gli italiani e non solo per aver regalato a Giuseppe Garibaldi l’amore di Ana Maria de Jesus Ribeiro, come si pongono rispetto ai francesi?
Mentre provavo a rispondere a questa peraltro inutile domanda, non ho potuto fare a meno di notare il materializzarsi al mio fianco, sul seggiolino del Green Point Stadium di Città del Capo, di Juan Carlos Onetti, da Montevideo.

“Piacere, sono Juan Maria Brausen, da Santa Maria. Il venerdì di solito mi rinchiudo nella mia stanza e ci rimango fino a lunedì, dedicandomi esclusivamente alla scrittura del mio libro. Ma questa sera c’è la seconda partita dei Mondiali e gioca il mio Uruguay. Due ore di pausa me le posso concedere.”



Perso nella bellezza delle maglie celesti, ho finto di guardare per novanta minuti un match noioso, messo in scena da undici francesi e dai parenti lontani di Ghiggia e Schiaffino. In realtà valutavo le percentuali di follia racchiuse dentro Onetti o Brausen, insomma dentro chiunque fosse la persona che il destino mi aveva assegnato come vicino di posto.

“Ricordo che ero a Buenos Aires, abitavo a calle Independencia 858, e un giorno, mentre stavo uscendo di casa per andare in ufficio, mi piombò dal cielo e la vidi.”
Cosa?
“La storia de La vita breve. Mi misi a scriverla disperatamente.”

D’accordo Juan. Ma tornando alla partita, se la Francia non ha mai battuto l’Uruguay ai Mondiali ci sarà un motivo, e nonostante la cifra tecnica superiore di Ribery e compagni, anche l’incontro di oggi mi pare destinato a non cambiare questa statistica. I transalpini danno l’impressione di autogestirsi, come studenti senza guida impegnati a inventarsi qualche azione per far passare le ore buche. La Celeste non vuole perdere, e per evitarlo si limita a seguire le traiettorie lasciate nel vento dai biondi capelli di Diego Forlan, il capitano.

“Da dove vengo il passato quasi non esiste. Gli abitanti come me di Santa Maria vivono solo nel presente. Mia moglie Gertrudis è stata operata e ha perso un seno, io sono sul punto di essere licenziato. Sto tentando si scrivere una sceneggiatura nella quale inventerò una città e dei personaggi ispirati ai miei conoscenti, ma potrei trasformare quest’idea in un’esistenza immaginaria, senza scrivere nulla, così avrei più tempo per guardarmi in santa pace questi Mondiali sudafricani.”

Nella realtà intanto, tutto converge vero un opaco zero a zero. Un debole colpo di testa di Anelka. Un tiro dalla distanza di Toulalan. Il tentativo del neoentrato Lodeiro di portarsi a casa almeno un pezzo della tibia di Bacary Sagna. Espulso. Uruguay-Francia, zero a zero.
In coda per uscire da questo stadio splendido, navicella bianca atterrata tra l’Oceano Atlantico e Signal Hill, Juan Carlos Onetti respinge a fatica l’idea di aver buttato due ore della sua vita breve:

“La letteratura è mentire bene la verità. Per questo come scrittore uruguagio non può dispiacermi oggi, avere vinto due a zero.”



Mondiali, fase a gironi. Città del Capo, 11 giugno 2010.

domenica 5 giugno 2011

Il mare perché corre



Anche Joan As Police Woman legge la quarta di copertina del nuovo romanzo di un bravo scrittore, finalmente in libreria.


È notte. Due uomini che si sono incontrati per caso viaggiano verso nord. Uno ha 46 anni, l'altro 82. Scoprono di chiamarsi entrambi Piero. Tutt'e due vanno in cerca di un grande amore ma in realtà fuggono: da un morto ammazzato, dal proprio passato, dalla loro sbiadita quotidianità paesana. In una notte e un giorno allucinati, senza sonno e senza sosta, nell'abitacolo dell'auto si incrociano, in un gioco simmetrico, la storia d'amore per Helena, giovanissimo medico bosniaco, e quella speculare per Nela, ebrea sefardita scampata ai lager nazisti e poi rifugiata nel campo di accoglienza di Santa Maria al Bagno, nel Salento, prima di partire per la Palestina. Due racconti, uno antico, l'altro recente, in cui scorrono la storia dello Stato di Israele e la guerra civile in Bosnia, l'assassinio di Marco Biagi a opera delle nuove Brigate Rosse e il terrorismo di Al Qaeda, l'invasione dell'Iraq e la politica imperialistica dell'amministrazione Bush. Un on the road nello spazio e nel tempo, un romanzo d'amore dal sapore noir. Alcune pagine della storia dell'Occidente che si incrociano all'interno di una vecchia automobile e si mescolano alle storie di due uomini qualsiasi alla ricerca di una personale redenzione terrena.