domenica 25 marzo 2012

Il posticipo_Milan-Roma (Ibrahimovic non legge Peter Camezind)

“Battendo le ali per la gioia di esser libero”, Peter aveva abbandonato Nimikon, il suo prosaico e deprimente paesello montano. Lassù in troppi si chiamavano come lui Camezind, lo scirocco soffiava forte e lui lo odiava, timidamente aveva scritto diverse poesie, ma poi le aveva bruciate tutte per manifesta bruttezza.

Fuggito a Zurigo, aveva tenuto per diversi giorni gli occhi spalancati, fino a quando non aveva conosciuto il musicista Richard che gli aveva procurato un lavoro (recensore di romanzi per un quotidiano locale) ma soprattutto consigliato un ristorante dove si poteva cenare pagando in libri. Misteriosamente e al di là di ogni giustificazione fiscale, la cameriera appassionata lettrice accettava infatti quasi tutto tranne Fabio Volo, e offriva in cambio di pagine i piatti tipici della cucina svizzera: Fondue, Raclette, Kalbfilet, Schweinschnitzel e Meringue.

Nonostante questa fortuna, Peter trascorreva le notti a bere e a osservare con senso di colpa la natura, incapace di trasformare le stelle, i monti e i laghi che vedeva in Poesia, ricambiato da quest’ultima con la moneta del rimprovero. A toglierlo dall'infelicità ci aveva pensato ancora l’amico Richard: grazie ad un cospicuo assegno del padre l’aveva invitato ad accompagnarlo un viaggio nell’Italia settentrionale, meta che il Camezind aveva sempre sognato.
A Milano erano saliti sul tetto del Duomo e osservandoli giudicare come dozzinali certi santi di pietra sulle guglie mi ero risentito, e invidiando pure l’ingenuità dei loro pochi anni (i miei di vent’anni prima) avevo aspettato solamente il momento opportuno per infilare le mani nelle loro valigette svizzere e derubarli dei rispettivi portafogli. Soldi in pugno, mi ero diretto con rinnovato entusiasmo verso San Siro dove avevo acquistato con facilità un biglietto per Milan-Roma.
Sulle prime, il Milan creava le occasioni migliori, ma allo scadere del primo tempo veniva beffato da una deviazione sottoporta di Osvaldo. Campionato riaperto? No, perché già al nascere della ripresa la squadra di Allegri trovava il consueto rigore aggiusta partita (ottavo stagionale) che Zlatan Ibrahimovic trasformava di piattone: 1-1. La Roma accusava il colpo, Totti da ottima posizione provava un cucchiaio invece di tirare una sassata, Muntari tirava una sassata invece che provare un pallonetto e centrava la traversa (per fortuna di tutti la parte alta). Quando il pareggio pareva ai più la soluzione più congrua, Muntari a sorpresa lanciava quasi a campanile da metà campo verso il centravanti in profondità. Heinze e Kjaer guardavano il pallone precipitare verso di loro, indecisi sul da farsi e sul reale valore letterario di “Peter Camezind”:
“Sai Gabriel, leggere il primo romanzo di Hesse mi ha emozionato...”
“Non so Simon, ripassandolo a quindici anni di distanza, l’ho trovato troppo romantico e ingenuo. Sono stato costretto a saltare molte pagine. Eppure, devo ammetterlo, ho rimpianto quel giovane difensore che ero ai tempi della prima volta, pronto ad emozionarsi per ogni aspetto del creato...”

Intanto, Ibrahimovic ne approfittava per infilarsi fra i due, scavalcare il povero Stekelenburg con un colpo a palomba nemmeno troppo elegante ma preciso nel trasformarsi in assist per sé medesimo, appoggiare di testa in rete resistendo al tentativo di sbilanciarlo del Kjaer combinaguai. Era il goal partita, probabilmente il goal scudetto.

Al fischio terminale dell’arbitro, San Siro esplodeva in un urlo liberatorio che sembrava irradiarsi dal centro corporeo del gigantesco fuoriclasse svedese. Nel dopo partita, Zlatan sintetizzava il suo pensiero in determinanti brevi sentenze:
“22 goal in 23 partite. Ho giocato un campionato più che perfetto. Che cazzo guardi. Si deve cambiare qualcosa, non va bene che a un mese dalla fine ci siano così tanti infortuni. Peter Camezind non l’ho letto e vivo bene lo stesso. Hermann Hesse per quanto mi riguarda può anche andare affanculo. Comunque se Peter Camezind fosse nato nel quartiere da dove vengo io non si sarebbe mai fatto fregare il portafoglio”.

martedì 20 marzo 2012

Il posticipo_Udinese-Napoli (Idioti a Desenzano)

Di passaggio a Desenzano tredici anni dopo l’ultima volta, probabilmente a causa di certi ignoti scherzi che la vita è solita fare, non avevo trovato sul lungolago ad attendermi quel venditore grasso di focacce amerinde indossante un berretto verde da cacciatore, con i paraorecchie che riuscivano a malapena a contenere le orecchie enormi. All’epoca Ignatius J. Reilly aspettava sua madre per tornare a casa insieme una volta terminate le focacce, convinto che il suo abbigliamento (che sotto il berretto proseguiva con una camicia di flanella a quadri e dei pantaloni di tweed larghi e robusti) rappresentasse il massimo sia dal punto di vista teologico sia da quello geometrico, mentre io mi concedevo una pausa con vista azzurra dal mio lavoro fine settimanale di consigliere elettrodomestico nei centri commerciali per conto di audaci marchi come Ariston, Whilpool, Candy.


Una domenica sì, e una no, Ignatius era affrontato con durezza da un poliziotto scemo che voleva arrestarlo, poco propenso ad accettare che un uomo di quelle proporzioni stesse ad aspettare solamente la madre, e non fosse implicato invece in qualche oscuro traffico.

“Quando nel mondo appare un vero genio, lo si riconosce dal fatto che tutti gli idioti fanno banda contro di lui” sottolineava Ignazio citando Jonathan Swift, prima di rivelarmi che l’unico motivo per il quale avrebbe potuto rischiare legalmente qualcosa era l’aver preso a pedate la macchinetta del Calcio nella salagiochi di Royal Street, colpevole di avere l’arbitro che non funzionava bene, anche se i gestori prima di restituirgli i soldi si erano mostrati così volgari da insinuare che fosse stato proprio lui a rompere la macchinetta con la sue scarpate.

Comunque fossero andate le cose, adesso a Desenzano Ignatius non c’era più, ma passeggiando vicino al porto avevo riconosciuto sua madre, intenta a raccontare ai passanti come il figlio avesse scritto un grande romanzo che però era stato respinto da nove editori, compresi Simon & Schuster di New York che dopo un’accoglienza inizialmente entusiasta si erano rifiutati di pubblicarlo perché in realtà, “il libro non parlava di niente”. Ignazio ci era rimasto male, fino a suicidarsi seduto nella sua auto con un tubo tra la marmitta e l’abitacolo. Aveva lasciato un biglietto, ma la madre l’aveva distrutto.

Sgomento e imbarazzato per la mia temporanea sebbene assoluta inutilità, avevo convinto Irene Reilly a fare un salto nella salagiochi preferita dal figlio, ignaro che i tredici anni trascorsi e le scoperte tecnologiche avvenute avessero trasformato le stanze con le macchinette di Royal Street in uno strip club, “Le notti di follia”, che la domenica prima degli spogliarelli aveva l’abitudine di caricare a mille i maschi avventori con la trasmissione del posticipo di Serie A.

Così mentre la signora Reilly mi assicurava con gli occhi dei matti che un giorno ce l’avrebbe fatta a far pubblicare il romanzo del figlio, l’Udinese aveva messo alle corde il Napoli per sessanta minuti portandosi sul 2-0 con Pinzi e Di Natale, fino a quando l’arbitro aveva smesso di funzionare favorendo in modo determinante l’undici partenopeo, a dimostrazione del fatto che se inizi la stagione scappando sopra uno scooter senza casco imprecando contro tutto e tutti, alla fine in Italia qualcosa raccogli. Dopo la rapina di Parma di quindici giorni addietro, nello specifico friulano i ragazzi di Mazzarri approfittavano dell’espulsione ingiusta di uno dei migliori in campo della squadra avversaria (Fabbrini), di un calcio di rigore molto dubbio poi elegantemente ciccato da Cavani, di un’interpretazione generale differente dei falli in base al colore della maglia. Tutto questo, unito alla veemente reazione del Napoli in superiorità numerica, consentiva agli azzurri inspiegabilmente gialli di pareggiare con due goal del loro rivoluzionario centravanti scheletrico-capellone, e di sfiorare la vittoria con Zuniga stoppato al novantesimo da una prodezza felina di Handanovic. Al fischio finale, dopo che Floro Flores aveva chiesto con glaciale ironia all’arbitro di scambiarsi le maglie, il presidente bianconero Pozzo sfogava in Tv tutto il suo malessere di provinciale frodato, subito smentito dai consueti commentatori televisivi, più attratti dalla comoda banalità compensativa.

Al mio fianco, Irene Reilly era ormai furiosamente ubriaca. Invece che osservare come me Gino Pozzo nella speranza che questi venisse al più presto sostituito dal maggior numero di donne nude consentito, prendeva a calci tavolino e sedie, come se questa irragionevole violenza potesse restituirle il figlio, e tutta la mole di opere che Ignatius, uccidendosi, non aveva potuto scrivere.

sabato 17 marzo 2012

A 40 anni. In ricordo di Giangiacomo Feltrinelli


Per ricordare Giangiacomo Feltrinelli nel quarantesimo della morte, la Casa Editrice, la Fondazione e le librerie Feltrinelli hanno raccolto in un booklet documenti e testimonianze sul loro fondatore. Tra gli interventi, testi di Alberto Arbasino, Christian Bourgois, Inge Feltrinelli, Nadine Gordimer ed estratti da "Senior Service" di Carlo Feltrinelli.

"A 40 anni. In ricordo di Giangiacomo Feltrinelli" sarà disponibile gratuitamente nelle librerie il 14 marzo, anniversario della morte. È un omaggio all'opera viva di un grande editore e di un uomo coraggioso e rivoluzionario.

Il booklet di grande pregio grafico è disponibile gratuitamente presso le librerie Feltrinelli.

mercoledì 14 marzo 2012

Il posticipo_Genoa-Juventus (L’invenzione di Martin Calzelunghe Bioy Caceres)


Turbato dagli ultimi avvenimenti si era nascosto su un’isola deserta. Poi erano arrivati dei turisti capeggiati da un inventore geniale che aveva promesso loro l’eternità, solo sintetizzata attraverso un complesso macchinario nella registrazione della loro ultima settimana. A suo dire l’unico modo per consentire alla vita di acquisire un senso trasformandosi nell’utile magazzino della morte. Martin allora aveva perso la testa per una zingara che parlava francese. L’aveva spiata, pedinata. Le aveva regalato addirittura un giardino di fiori, senza ottenere però alcuna risposta. Aveva cominciato quindi a scrivere un diario, a leggere il cugino argentino Adolfo Bioy Casares, a pensare alla sua ultima settimana.

Aveva giocato bene contro il Genoa, anticipando gli attaccanti avversari con determinazione uruguagia mascherata nel suo look consueto fatto di capelli lunghi raccolti dietro la nuca e di calzettoni tirati sopra il ginocchio, come un Pippi Calzelunghe maschio e sudamericano. E anche i suoi compagni avrebbero meritato la vittoria. Non era bastato tuttavia tirare 29 volte verso la porta avversaria, collezionare 17 calci d’angolo, colpire due pali e una traversa: il risultato era rimasto inchiodato sullo 0-0. Del resto, al gioco del pallone non si vinceva ai punti. Oltre la sfortuna però ci si era messo anche il solito arbitro italiano, malapartianamente in malafede, astuto nell’uniformarsi alla legge a suo tempo enunciata e denunciata dall’allenatore bianconero Antonio Conte: “Nel dubbio, mai fischiare a favore della Juventus”. Un rigore netto non concesso a Matri, una rete regolare annullata a Pepe. Errori che andavano a sommarsi al solo penalty concesso ai bianconeri in 27 giornate, caso unico tra le squadre di vertice nei campionati europei. Il Milan ne aveva approfittato per battere il Lecce e portarsi a +4 in classifica, ipotecando la conquista del secondo scudetto consecutivo.

Sull’isola Martin aveva imparato a distinguere le radici commestibili, in fondo non erano tanto diverse da certi ciuffi d’erba che aveva ruminato al Marassi dopo averli strappati dal prato per non buttarsi troppo giù di morale. L’effetto di tale ingerimento sulla sua psiche era stato di natura allucinogena e l’aveva riportato ad un pomeriggio da bambino, quello in cui sua madre l’aveva rapato a zero. I compagni di calcio l’avevano subito soprannominato “El Pelado”.

Adesso invece sull’isola c’erano due soli e due lune nel cielo. Unico vivo circondato da “registrati”, aveva cercato di rompere il macchinario dell’inventore a sprangate prima di crollare a terra esausto e sconfitto, con i nervi a pezzi. Infine si era accorto che nonostante lo scudetto probabilmente perso senza possibilità di combattere ad armi pari la vita non era poi così atroce, e forse poteva anche essere il più felice di mortali. Bastava azionare i ricevitori di attività simultanea, ricordarsi di una storia immaginata con la ragione dal cugino Bioy, e recitare al meglio la sua ultima settimana.

lunedì 5 marzo 2012

Il posticipo_Roma-Lazio (Edy con il sole in tasca)


Dell’uomo con il sole in tasca ora sulla strada non restava che una caricatura curva, vestita con una tuta e le pantofole. Eppure vivo, solo con il fastidio della luce e con un dito di barba bianca sulle gote. Le nuove Brigate Rosse l’avevano rapito, uccidendo i nove uomini della scorta. L’avevano tenuto imprigionato per quattro giorni in uno stanzino lungo due metri e cinquanta, largo uno e venti e alto tre metri. L’avevano interrogato in una lingua sepolta fino a condannarlo a morte “perché colpevole di perseguire un progetto autoritario e antidemocratico, nonché per i danni sociali, morali e mentali che ha provocato con le sue televisioni.”

Poi qualcosa dopo la lettura della sentenza era accaduto. I tre terroristi non erano più tornati a riprenderlo, aveva sentito un sparo oltre la parete, quindi si era avvicinato alla porta della sua prigione e l’aveva trovata socchiusa. Nell’appartamento, la brigatista più cieca e violenta, Cecilia, quella che avrebbe voluto ammazzarlo fin dal principio, giaceva immobile sul pavimento con il sangue che le usciva dalla testa. Degli altri due sequestratori, Luca e Mario, nessuna traccia. Scendendo i tre piani di scale era arrivato in strada dove un uomo senza emozione, il commissario Luigi Leandri, l’aveva riconosciuto a fatica.

La domenica splendeva, e la città più bella era come avvolta da un velo dorato. Per una volta il sole vero era più potente di quello che lui aveva avuto sempre di tasca: da venditore, da imprenditore, da presidente. Era ancora vivo, e stretta la mano del commissario, seppur in versione ginnica non aveva perso autorità nel convincere il Leandri a disubbidire ai suoi superiori e alla logica, costringendolo a trovargli in tempi brevi una donna, bella, disposta ad accompagnarlo allo stadio.

All’Olimpico, la Lazio infilzava già al settimo minuto la suicida difesa alta della Roma. Hernanes trovava il corridoio giusto alle spalle di Heinze, Klose s’infilava rapido in quella corrente d’aria anticipando l’uscita disperata di Stekelenburg che lo abbatteva. Rigore, espulsione del portiere, goal.
I giallorossi si catapultavano in avanti rabbiosi e quasi subito pareggiavano: traversa di Juan, ribattuta verso la porta di Borini, goal-non goal, questa volta goal, nonostante l’umano e normale dissenso gridato di tutti i difensori biancocelesti. Nessuna polemica ipocrita di giornalisti assunti per raccomandazione sul negazionismo laziale.
Il 2 a 1 finale sarebbe arrivato nel secondo tempo con la rete oratoriale di Mauri. Punizione a spiovere dai 35 metri di Hernanes, l’aquila numero 6 finge di allontanarsi dall’area di rigore poi invece si lancia nella medesima con uno scatto improvviso. Gli astuti giocatori di Luis Enrique si guardano come a dire: “Ma come Mauri, cioè noi pensavamo che a quest’azione non volevi partecipare, e invece...vatti a fidare degli avversari.” Spaccata di sinistro dell’isolato capitano furbo, goal.

Mancava ancora mezz’ora, ma che la partita ormai fosse conclusa lo sapeva anche il vento. In tribuna Monte Mario (o Monti Mario) il presidente del Consiglio distoglieva lo sguardo dal campo per passare ai fatti con la giovane donna al suo fianco:
“Signorina, mi consenta di raccontarle del mio rapimento. Mi hanno tenuto in ostaggio in tre, ma li ho sgominati con la mia forza, non prima di aver fatto a brandelli con il coltellino per tagliare la mela quella orrenda bandiera rossa con la stella a cinque punte. Se lei è d’accordo, a questo punto le darei un bacio.”

Sulla pista d’atletica rivolto verso il pubblico, l’anziano Edy Reja invece saltellava. Solo qualche giorno prima dimissionario, licenziato, sostituito, adesso si godeva il secondo successo stagionale in un derby per 2 a 1 e il terzo posto in classifica. Saltellava con la sciarpa biancoceleste al collo, e dalla tasca gli usciva un sole.