martedì 26 maggio 2015

Un ricordo dell'Heysel



(da Mio padre era bellissimo, Italic, 2009)


I pomeriggi ospedalieri erano nettamente diversi da quelli a cui ero abituato, a causa dell’assenza della bicicletta e del calcio, del gelato e della salamina, dei documentari e delle fotografie. La cosa che li accomunava era invece la biligornia, uguale nella stanza dell’ospedale come a casa. Per ingannare il tempo aprivo, sopra il tavolino per mangiare a letto, un quadernone a quadretti che conteneva le principali manifestazioni calcistiche d’Europa, tutte svolte da me. I vari campionati venivano disputati con il tiro dei dadi che io stesso eseguivo, forte di una quasi totale imparzialità. Solo un paio di volte, quando la squadra per cui tifavo nella realtà così in prossimità del successo da non poter lasciarselo sfuggire, avevo barato. Prendendo come scusa un improbabile bilico di dado, avevo rilanciato. Prima di farlo avevo osservato il mio vicino di letto, un povero bambino al quale dovevano allungare una gamba. Non capivo. Come si poteva nascere con una gamba più corta dell’altra? Eppure fin da quando era venuto al mondo il bambino vicino era nato con una gamba più corta dell’altra e periodicamente doveva ricoverarsi in ospedale per fare operazioni, fisioterapia, tutto per arrivare un giorno, forse, ad avere due gambe lunghe uguali. Ora dormiva. Nessuno avrebbe testimoniato, nessuno avrebbe saputo come erano andate le cose, di questa piccola correzione in semifinale. Alla fine la Juventus aveva vinto la Coppa dei Campioni, ma avevo in lieve senso di colpa. Era giusta questa vittoria?
Ogni tanto le infermiere passavano e controllavano cosa stavo facendo, poi mi chiedevano di illuminarle sulla possibilità di recupero in campionato della Juventus, del Milan e dell’Inter. Non gli rispondevo, ma le speranze erano poche. La Juventus sembrava avere la testa altrove, le due milanesi facevano fatica quell’anno e anche il Napoli di Maradona non brillava. Lo scudetto pareva essere una faccenda tra Verona e Torino. Comunque, si sarebbe visto alla fine.

Una sera da ingessato all’ospedale era la sera della finale di Coppa dei Campioni fra Juventus e Liverpool, 29 maggio 1985. La partita si giocava allo stadio “Heysel” di Bruxelles. Non avevo la televisione ma, grazie a Dio, il bambino “allungabile” vicino di letto, abituato a lunghi soggiorni ospedalieri, sì. Però, la teneva girata quasi totalmente dalla sua parte. Sosteneva che io ero fortunato perché il mio braccio sarebbe tornato normale mentre lui con le sue gambe avrebbe sofferto per tutta la vita. Questa sua affermazione mi aveva fatto venire immediatamente la biligornia. Era l’undicesima operazione di allungamento che faceva. Mi ero addormentato per non pensarci. Poi mi ero risvegliato di soprassalto. Il bambino allungabile mi aveva chiamato per dirmi che era successo qualcosa di veramente brutto. La partita non cominciava più. Sullo schermo scorrevano immagini orribili. Uomini schiacciati da altri uomini tendevano le braccia disperatamente da una delle curve di pietra dello stadio, verso qualcuno che potesse aiutarli. Sembravano intrappolati con le gambe. Io non capivo cosa stava succedendo e con il bambino allungabile osservavamo il capitano del Liverpool, Phil Neal, dire qualcosa in inglese dalla cabina dello speaker. Non avevamo capito. Poi era toccato al capitano della Juventus, Gaetano Scirea, annunciare: “Giocheremo questa partita solo per permettere alle Forze dell’ordine di riorganizzarsi. Non rispondete alle provocazioni. State calmi, giocheremo”. Il telecronista Bruno Pizzul alternava lunghi silenzi a frasi sconcertanti:
“L’evento agonistico non ha più importanza…”
“Sono morte trentanove persone…”

Giunta per la terza volta in finale, ancora una volta la Juventus sembrava non riuscire a vincere la Coppa dei Campioni, l’unica che le mancava per diventare la prima squadra in Europa a trionfare nelle tre manifestazioni calcistiche più importanti del continente. I miei compagni di gioco, pensavo, avrebbero tirato fuori la stessa storia all’oratorio, che l’avvocato Agnelli pagava gli arbitri ma riusciva a farlo solo in Italia, e per questo la Juve non vinceva mai la Coppa più prestigiosa. Poi la partita era iniziata, ma era così brutta che mi ero di nuovo addormentato. Perfino Platini giocava male.

“Ehi sveglia! Sveglia! Rigore per la Juve!
Il bambino vicino di letto mi aveva chiamato apposta e appena in tempo per il rigore di Platini.
Michel si era asciugato la fronte dal sudore, passandosi una mano tra i capelli. Aveva posizionato il pallone sul dischetto curvandosi con la schiena, era indietreggiato di un paio di passi fermandosi ancora dentro l’area di rigore. Aveva appoggiato le mani sui fianchi. Si era piegato con il corpo in avanti per iniziare una breve rincorsa. Aveva spiazzato il portiere con il solito colpo di piatto.
Gol.
Platini aveva cominciato a correre per esultare, schivando l’arbitro e anche un compagno che voleva abbracciarlo. Ridendo aveva alzato il braccio destro verso una delle tribune dello stadio. Poi aveva rilanciato di nuovo lo stesso braccio verso il cielo dopo averlo apparentemente “ricaricato” preparandone lo slancio con l’altro. Aveva ripetuto il gesto una terza volta, senza più sorridere, con un’espressione più rabbiosa, prima che i compagni lo sommergessero.
“Ma non è una partita vera…” aveva sentenziato il bambino con una gamba più corta.
Platini aveva esultato  in un modo che la consapevolezza di ciò che era accaduto, nei giorni seguenti, avrebbe reso agghiacciante e tetro.
Il sorriso di gioia atletica, il suo braccio lanciato verso l’alto. La Juventus era campione d’Europa.

La tragedia in cui persero la vita trentanove persone, provocata dal crollo del muretto sotto la spinta animalesca dei tifosi inglesi, passò alla storia come la “strage dell’Heysel”. La maggior parte delle vittime perse la vita per fenomeni legati alla compressione degli organi vitali. La partita ebbe inizio con qualche ritardo. Nei giorni successivi i giornali mischiarono notizie sportive e cronaca nera, e io all’ospedale leggevo commenti e articoli che facevano prevalere l’orrore a danno della gioia. La Juventus era così la prima società a iscrivere il proprio nome nell’albo d’oro di tutte le competizioni organizzate dall’UEFA, ma il rigore sembrò quasi una riparazione per quello che gli italiani presenti allo stadio avevano subito. Era punizione. La cavalcata dell’attaccante polacco Zibignew Boniek, raggiunto da un lungo lancio millimetrico di Michel Platini, era stata sì interrotta con un fallo da parte di un difensore del Liverpool, ma prima che il rapido numero undici dai capelli rossi e con il bottone della maglietta allacciato entrasse nell’area di rigore. L’arbitro aveva ugualmente concesso il penalty e la Juventus aveva vinto per uno a zero. Era il caso di restituire la coppa? Le autorità belghe chiesero l’estradizione di ventisei teppisti inglesi ritenuti responsabili della strage. Capocannonieri del torneo furono Michel Platini della Juventus e Nilsson del Goteborg con sette reti.



(da Mio padre era bellissimo, Italic, 2009)

lunedì 4 maggio 2015

A passeggio con il campionato (33)


da Chiavari

“L’Italia è un Paese di barbagianni, tendenzialmente mafiosi!”
sbraitava quel tale in piedi su una sedia nel centro di Chiavari vicino alla fontana.
Io arrivavo da Milano dopo aver spento internet, la Rete non cambierà le cose, internet non salverà il mondo; e mi chiedevo come mai, tutta questa ostilità nei confronti dei barbagianni. Poi correvo dietro a Pietro in bicicletta coi pedali da due settimane, mettendo in scena la teatrale sacralità del ruolo di padre, avvertendo e rassicurando il piccolo già sfrecciante con caschetto sotto portici e carruggi in merito a gambe di passeggianti da evitare, attraversamenti zebrati di strade da rispettare. Nel giorno del primo maggio, scorgevo bagliori di civiltà nel centro di Chiavari con i negozi tutti chiusi, come vent’anni fa, mi veniva in mente quel povero editorialista del Quotidiano numero 2 che di recente, in uno chic-radicale corsivo, aveva lamentato la tristezza dei centri storici nei giorni di festa con le attività commerciali chiuse, le cartacce sporche negli angoli (?): ma vai a lavorare te il venticinque aprile o la domenica, figlio di giornalista benestante che fa il mestiere del padre. Quindi tornavo dal tale, felice che le ruote della Puky gialla e rossa di Pietro non avessero inferto ferite o prodotto cadute ad anziane e secche gambette di villeggianti, di conseguenza riversi al suolo doloranti e forse senza alito di vita:
“Chi è il papà di questo bambino? Chi è il papà di questo bambino!”
“Sono io, buongiorno, Bianca invece è a casa con la mamma perché piove.”
Il tale continuava:
“Ma se Maria Elena Boschi fosse una cicciona di duecento chili, pensate davvero che, mentre vengono approvate volutamente oscure leggi, ce la ritroveremmo tutti i giorni ritratta sulle prime pagine dei giornali cartacei e online, intenta a guardare pensosa e corteggiata nel vuoto, a scartare stanca ma educata cioccolatini? Questa ossessione dei fotografi parlamentari per Maria Elena, in un certo qual modo Cicciolina democratica dei nostri tempi…”
Dopo il comizio accompagnavo il tale all’Angolo del Tè, lui diceva aspetta che la sedia me la porto dietro non si sa mai, rispondevo certo, del resto io ho il bambino; entravamo nella sala accogliente e nonostante le cinquanta miscele di infusi o decotti disponibili optavamo per due caffè. Vicino al bancone alcuni avventori del locale (si diceva raffinata intuizione di due russe) avvicinavano l’uomo della sedia per dirgli Mi piace! quello che hai detto, Anche a me piace! aggiungeva un altro. Qualcuno commentava e diceva la sua, sui social iniziava a spopolare l’hashtag #luomoinpiedisullasedia.
“Allora se vi è piaciuto cliccate sulla mia pagina, per favore!”
mi sorprendeva l’urlatore brandendo la sedia e facendola vorticare nel vuoto. Poi mi confidava di aver cercato assenso e popolarità anche a Lavagna nel corso del mattino, ma di aver abbandonato la confinante località per via dei pochi passanti, delle troppe cacche e pipì sparse lungo il territorio da quadrupedi orrendamente gestiti e coccolati da padroni misantropi alla buona privi di sacchetto raccogli-merda, e di essere quindi approdato a Chiavari alla ricerca di una maggiore visibilità. Io invece mi trovavo in Riviera per caso, ma baciato dalla fortuna di non essere a Milano il giorno dell’inaugurazione di Expo 2015, con allegati scontri di piazza prevedibili e programmati, in parte probabilmente escogitati o poco controllati per non parlare di e far blaterare i più, con successive reazioni popolane alla #nessunotocchimilano espresse talvolta da individui, politici o imprenditori arricchiti usando magari mezzi illegali, che nella vita erano quotidianamente raffinati e autorizzati black bloc. Da segnalare nella circostanza, la commossa gratitudine degli abitanti della Milano bene nei confronti degli spazzini capaci di ripulire certe strade nobili in tempi da record dopo la guerriglia:
“di solito puzzano un po’ questi spazzini quando gli passi vicino con la colf che spinge il passeggino al posto di noi ricche madri, però stavolta bravi dai.”
Molto meglio allora Chiavari anche se poi l’illusione dei negozi chiusi era soltanto dovuta alla pausa pranzo, alle ore 16 gli italiani tornavano a brulicare sotto i portici confortati dalla intermittente e colorata luminosità delle vetrine, dalla rassicurante possibilità si spendere e comprare, invece che pregare o suicidarsi. Le campane suonavano a festa, io leggevo su facebook qualche limpido ragionamento di Francesco Pecoraro.